Si semina e si raccoglie. È questo l’ordine naturale delle cose, e vale anche in senso figurato, per dire che le conseguenze delle nostre azioni sono inevitabili. Non è però sempre è così. A volte si semina ma sono altri a raccoglierne i frutti. È quello che è successo a João Alves Jobim Saldanha, conosciuto anche come João Sem Medo (João senza paura, leggendo l’articolo si capisce il perché del nomignolo).

Nato ad Alegrete, Brasile, nel 1917, due sono le scelte importanti che da ragazzo João fa: giocare a calcio e aderire al Partito Comunista.

Come calciatore inizia a giocare con il Botafogo ma la sua carriera da professionista dura pochi anni a causa di un grave infortunio che lo costringe a smettere giovane. Comunista lo è invece rimasto per tutta la vita.

Una volta chiuso con il calcio studia da avvocato e poi intraprende la carriera di giornalista, e nel giro di pochi anni diventa uno dei più celebri cronisti sportivi dell’epoca. “Vede” così bene le partite che, secondo alcuni, è più competente della maggior parte degli allenatori. E forse per questo, a sorpresa ma non troppo, nel 1957 il Botafogo, nonostante la sua completa mancanza di esperienza, gli offre la panchina della prima squadra.

Due anni dopo, e un campionato vinto, rassegna però le dimissioni in segno di protesta per la cessione di due importanti giocatori. E torna a fare il giornalista.

Nel 1968, con la Selecão in profonda crisi dopo il fallimento al mondiale inglese del 1966, questa volta sì a sorpresa, viene chiamato sulla panchina verdeoro dall’allora presidente della federazione João Havelange (si dice che fosse stato scelto proprio lui perché, con un giornalista alla guida della Nazionale, il presidente sperava che i giornalisti fossero meno critici con essa).

Alla conferenza stampa di presentazione, quando i colleghi gli chiedono con che modulo di gioco avrebbe fatto giocare la squadra, il neo allenatore tira fuori dalla tasca un foglietto e legge i nomi di quelli che saranno gli undici titolari e le undici riserve al mondiale in Messico, mettendo, tra la sorpresa generale, nella stessa formazione cinque “numeri 10”.

Nessuno, fino ad allora, aveva dato con così tanto anticipo i nomi dei calciatori che avrebbe convocato, e nessuno aveva mai fatto giocare nello stesso “undici” così tanti attaccanti.

Nel successivo anno e mezzo il Brasile vince tutte e dodici le partite giocate, tra qualificazioni ed eliminatorie, ma nonostante le vittorie, il rapporto con la dirigenza della Nazionale carioca inizia a deteriorarsi, anche perché Saldanha non aveva mai smesso mai di attaccare la dittatura (all’epoca il Brasile era governato da una giunta fascista). Nel 1969, ad esempio, dopo l’assassinio del suo amico Carlos Marighella, Saldanha aveva confezionato un dossier nel quale citava più di 3.000 prigionieri politici e centinaia di persone torturate o uccise dalla dittatura, e lo aveva distribuito in Messico in occasione del sorteggio per i mondiali.

Ma la goccia che fa traboccare il vaso arriva quando l’allenatore decide di non cedere alla richiesta di convocare per il mondiale alcuni giocatori cari alla giunta. Saldanha è stato irremovibile («Chi sceglie i giocatori sono io. Quando il presidente ha scelto i suoi ministri mica ha chiesto la mia opinione»).

Così, il 17 marzo 1970, a un mese e mezzo dall’inizio dei mondiali, Saldanha viene esonerato.

Negli anni successivi, avrebbe dichiarato più volte che la sorpresa non era tanto il fatto che fosse stato licenziato in quel modo, quanto il fatto di essere stato chiamato a guidare la squadra nazionale, ben conoscendo le sue idee politiche («Perché mi hanno cacciato è molto facile capirlo. Più difficile è spiegare perché mi abbiano assunto»).

La panchina è affidata a Mario Zagallo, che poi, con gli stessi uomini selezionati da Saldanha (Félix, Carlos Alberto, Brito, Djalma Dias, Rildo; Piazza, Dirceu Lopes, Gérson; Jairzinho, Pelè, Tostão, più Everaldo, Clodoaldo e Rivelino), vince il mondiale messicano, con quella che a detta di tanti è stata la migliore nazionale brasiliana di tutti i tempi.

João Saldanha è morto 12 luglio 1990, a Roma, dove si trovava per commentare i mondiali di Italia90, senza mai aver provato, in tutti quegli anni, invidia o rimpianti per il fatto di aver creato una squadra imbattibile ma non averne potuto raccogliere i meriti e le vittorie.

1 commento

  1. Bellissima storia. Grazie Meno.

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