
Conosco Gianni Iurato da sempre. Quando ero bambina era una figura carismatica dell’oratorio Salesiano che frequentavo. Ricordo i suoi racconti di un’esperienza missionaria in Madagascar che ci mostrò con le vecchie diapositive a mascherina. Il suo impegno politico tra i giovani che bazzicavano intorno a mio padre, esponente di una Democrazia Cristiana che in una delle tanti correnti cercava di far scorrere l’acqua vitale del messaggio di Sturzo e di Moro. Ora è consigliere comunale, funzione che svolge con dedizione e responsabilità. Cultore appassionato e generoso di storia locale, ha una pagina facebook che è una frequentata miniera di informazioni e aneddoti sulla storia di Ragusa, dove vive da sempre.
Le nostre strade non si sono mai separate, e tante volte ci siamo confrontati e scambiati notizie e riflessioni. Finalmente oggi è arrivato il momento di andarlo a trovare a casa, per incontrare chi ci abita: lui, la moglie e le reliquie che religiosamente conserva. Mi accompagna mio padre, anche lui curioso e onorato di condividere questo momento.
Gianni mi aveva descritto il sacrario. Ma niente ti può preparare all’impatto che provi quando, al quarto piano di un normalissimo condominio di periferia, ti accoglie uno spazio che originariamente doveva essere l’ingresso-soggiorno. Non un centimetro delle pareti è libero da targhe, diplomi e fotografie. Vetrine ricolme di oggetti rivestono le pareti. Ma soprattutto ci sono loro: manichini, simulacri di uomini che indossano le divise di un tempo. Quasi 20, schierati a gruppi nella stanza, rivolti verso i divani, unica traccia di “normalità” sopravvissuta all’invasione del passato.
All’inizio sono sopraffatta da emozioni contrastanti: sorpresa, oppressione, curiosità. Rinuncio da subito alla tradizionale intervista. Lascio che la conversazione fluisca libera, che a parlare siano Gianni e gli oggetti che sceglierà di mostrarci, tirandoli fuori dall’apparente caos.
Risponde alla domanda silenziosa che c’è nei miei occhi: Perché?
“Gli oggetti sono solo oggetti. Parlano solo quando c’è qualcuno disposto a dare voce alla loro storia. Ma il racconto d’insieme che si può costruire con questi frammenti può essere molto diverso. Ad esempio il piccolo museo che si trova a Ragusa, quello degli italiani in Africa, può esprimere nostalgia per i tempi in cui anche l’Italia era un impero, oppure può spiegare gli errori, descrivere la brutalità e gli orrori, costringere a fare i conti con un passato che fa comodo dimenticare. Ma solo una giusta guida può accompagnare ad un approccio critico e soprattutto umano con questi oggetti”
Si alza, apre una vetrinetta, estrae un piccolo ovale porcellanato, lo accosta ad una cornicetta poco più grande.
“Questi sono i pezzi più importanti della mia collezione. Cosa vedete?” Sembrano due bambini vestiti da soldati, quello della foto ovale ha un curioso elmetto con una punta acuminata in cima. L’altro, nello studio di un fotografo, appoggia su un piedistallo la mano sinistra con una sigaretta spenta e la destra su un cavallo a dondolo, rialzato da terra. Ma non sono vestiti in maschera, sono due soldatini morti nel 1918, uno nelle schiere austriache, l’altro in quelle italiane.
“È la storia dell’austriaco quella a cui sono più legato. La scovai circa trent’anni fa in un mercatino a Catania. Il venditore mi raccontò dell’anziano che l’ha posseduta, che conosceva prima di andare a svuotare la sua casa, dopo la morte. A lui, a Zzu Nanè, un tempo aveva chiesto chi fosse quel ragazzino raffigurato nella foto che teneva sul comodino. Reduce della grande Guerra, Zzu Nanè rientrava faticosamente dal doloroso fronte giuliano. Passò attraverso un cimitero, anche questo sconquassato dalla guerra. Tra le lapidi divelte, ossa sparse e croci spezzate, trovò questa foto. Negli ultimi anni di guerra erano stati chiamati al fronte i carusi: gli italiani mandarono tra le trincee i ragazzi del ‘99, gli austriaci fecero ricorso addirittura alla classe 1901. – Non c’era il nome di quel ragazzino, ma ho preso la foto e non me ne sono più separato. Avevo sparato ed ucciso chissà quanti soldati e non mi sono mai domandato chi ci fosse dentro quelle uniformi, dietro quelle ombre a cui miravo tra i bagliori ed il fumo delle esplosioni. Ho visto in quella faccia liscia di bambino una delle vittime a cui ho tolto la vita. Se avessi visto il suo volto, forse non avrei sparato, forse mi sarei rifiutato, forse…Per questo starà sempre accanto a me, a ricordarmi che io sono vivo e lui è morto, chissà perché”.
L’intervista potrebbe fermarsi qui, c’è tutto il senso di religioso rispetto per vinti e vincitori, per le vittime ma anche per i sopravvissuti, che portarono indietro ferite fisiche, ma lacerazioni ancora più profonde nell’animo, anche di chi rimase incolume. Commossi ci aggiriamo tra i bossoli di artiglieria trasformati in vasi e calici dai prigionieri di guerra per ingannare il tempo infinito della noia. Il racconto si sposta su una vetrina. In un ripiano tutto il corredo di un cappellano militare, in quello sottostante oggetti provenienti dai campi di concentramento e sterminio nazisti. Sono stati toccati da vittime e carnefici. Un brivido mi percorre quando prendo tra le mani un calibro metallico.

“Serviva ai medici nazisti per misurare il cranio alla ricerca delle corrette proporzioni ariane. Vita o morte dipendeva da quell’oggetto. Questi sono dei libretti in cui veniva certificata la fede protestante o cattolica. Erano più importanti dei documenti d’identità” Per arrivare ad ogni oggetto spostiamo i manichini che indossano le divise. Gli chiedo come se le è procurate. “Poche sono arrivate tutte complete. Le assemblo a poco a poco, recuperando i singoli pezzi nel corso degli anni. Girando nei mercatini, dove preferisco acquistare. Mi servo molto poco del mercato della rete, perché amo la possibilità di ricevere delle informazioni mentre entro in possesso di un oggetto. Come questo portasigarette in argento, comprato in Polonia presso una famiglia che l’aveva ricevuto in cambio di cibo e accoglienza da un ufficiale nazista in fuga dopo la fine della guerra”. Nelle sue mani e nelle sue parole leggo il rispetto per l’umanità sconfitta e per quella che accoglie, qualsiasi sia il colore della divisa. Posa il portasigarette, elegante e raffinato pur con la svastica centrale, e si allunga per raggiungere una mazza chiodata, che sembra ancora grondare di sangue anche se è passato più di un secolo. “Era in uso presso l’esercito austriaco e serviva per finire i soldati nemici storditi dai gas”. Brutalità primitiva a completare la chimica moderna.
Su un lato della stanza riconosco divise dei carabinieri, alcune del Regio Corpo altre del periodo repubblicano. Quotidiane e da parata, e una strana divisa verde oliva. “Questa ha una storia incredibile. Un carabiniere in pensione, che si era ritirato a coltivare la terra non lontano dalla casa dei miei nonni, conoscendo la mia passione, mi promise che avrei ricevuto delle casse alla sua morte. Ebbe una lunga vita e le casse mi furono consegnate circa 30 anni dopo la promessa ricevuta. Dentro un tesoro: oltre le divise complete, foto, documenti e una sorta di diario in cui annotava i luoghi e i servizi compiuti. Scopro così che era carabiniere già prima della guerra e rimase al suo posto anche dopo l’8 settembre del 1943. In quella posizione, a Trieste, cercava di fare il possibile, avvisando il parroco quando sapeva che ci sarebbe stata una retata. Tanti si salvarono, ma dopo un po’ anche i nazisti si accorsero che faceva il doppio gioco, e venne mandato in un campo di concentramento. In Germania fu impiegato per la rimozione delle macerie e il recupero delle salme nelle città bombardate. Finita la guerra ci vollero mesi per rientrare in Sicilia: in treno quando possibile, altrimenti a piedi come altri migliaia di reduci. Ridotto pelle ed ossa, fu ricoverato in ospedale militare a Messina. Appena fu in condizione di riprendere il servizio fu mandato in un reparto speciale – quello per la Repressione del Banditismo. Istituito nel 1943 ed attivo fino al 1950, costituisce un episodio della lunga storia della guerra al banditismo e al brigantaggio. Cento anni di scontri e di morti, di cui si parla poco. Ma la cosa più incredibile è che nemmeno i familiari conoscevano queste vicende. C’è una sorta di pudore: i sopravvissuti non vogliono aprire il vaso di Pandora del proprio dolore, ed inquinare la serenità finalmente raggiunta insieme ai propri cari”.

Mi racconta dei suoi pellegrinaggi presso i vari cimiteri militari, di cui conserva un po’ di terra entro vecchi vasi di vetro da farmacia. Dell’impressionante sacrario di Redipuglia, dove sono sepolti 100.000 caduti della Grande Guerra, di cui circa 60.000 non identificati. “E questo per la stupidità di chi ha pensato a questi sistemi di riconoscimento. Guarda, invece delle piastrine hanno pensato bene di creare un elegante guscio metallico con indicazioni precise: matricola, nome, cognome, divisione, etc., ma scritte su carta. Dopo pochi giorni l’acqua penetra nel piccolo astuccio e rende la carta illeggibile. Queste sono tedesche, e poi anche quelle italiane della seconda guerra mondiale sono metalliche e garantiscono il riconoscimento sicuro dei resti. Sarebbe bastato poco per restituire a tante mamme e mogli una tomba su cui piangere”.

Il tempo passa, le ore trascorrono senza che ce ne accorgiamo. Dobbiamo chiudere. Gli chiedo cosa vorrebbe per la sua collezione.
“Mi piacerebbe avere un po’ più di spazio per esporre dignitosamente tutti i pezzi, e per permettere di studiare i circa 5.000 documenti che ho raccolto nel tempo. Ma soprattutto per poter accogliere gli studenti e le classi. Per ora posso ospitare solo una classe, non numerosa, e mia moglie ha preparato dei cuscini per fare accomodare per terra i ragazzi. Perché sento un dovere: raccontare le storie che ho ricevuto assieme a questi oggetti, e testimoniare che la guerra è sempre una tragedia, e che non esistono conflitti giusti. I protagonisti sono uomini come noi, ed io cerco sempre di tirarli fuori dal freddo conteggio dei numeri per restituire loro dignità attraverso la concretezza degli oggetti che li hanno accompagnati, in vita ed in morte”.

Un incontro e un’ intervista molto interessanti
Un patrimonio del genere non dovrebbe restare nascosto tra le mura di una casa privata. Ogni cimelio racconta una storia di sacrificio, coraggio e memoria che appartiene a tutti noi. La città dovrebbe farsi carico di creare uno spazio adeguato, accessibile a tutti, dove questi oggetti possano essere custoditi, valorizzati e raccontati. Solo conoscendo il passato possiamo davvero capire da dove veniamo e apprezzare ciò che abbiamo oggi. Un’iniziativa del genere sarebbe un atto di rispetto verso chi ha dato tanto per il nostro presente e un’opportunità educativa per le nuove generazioni