Sono nati a Sutera, in provincia di Caltanissetta. Lorenzo nel 1952, Enzo nel 1957. A metà degli anni settanta si sono trasferiti a Londra e hanno lavorato in fabbrica, dedicando il loro tempo libero al recupero del patrimonio musicale della loro terra. Negli anni ottanta sono rientrati in Italia, stabilendosi in Umbria, e hanno continuato la loro attività concertistica esibendosi in piccoli teatri in Italia ma, specialmente all’inizio, soprattutto in Germania e Francia. Loro sono i fratelli Mancuso, musicisti e polistrumentisti. Operaincerta li ha incontrati.

Enzo, Lorenzo, perché da Sutera avete deciso di andare a lavorare a Londra?
Enzo: Siamo andati a Londra per seguire, diciamo così, una tradizione di famiglia. In Inghilterra c’erano già altri due fratelli, più grandi di noi, che erano andati lì per lavorare. In quegli anni si emigrava, soprattutto dai paesi dell’entroterra siciliano. Man mano che si raggiungevano i 18/20 anni si partiva perché in Sicilia non c’erano altre prospettive. E si seguivano le orme già tracciate da parenti o amici. Per primo è partito Lorenzo, è andato a lavorare in fonderia, io l’ho raggiunto dopo aver preso il diploma magistrale.

E a Londra avete intrapreso anche un percorso artistico, andando alla ricerca delle vostre tradizioni musicali.
Lorenzo: Già a Sutera, da ragazzini, suonavamo la chitarra, perché era lo strumento più accessibile, ed avevamo un piccolo complesso, all’epoca si chiamavano “complessi”. A Londra però abbiamo sentito l’esigenza di riscoprire la musica che da bambini avevamo ascoltato in paese. Era anche un momento storico in cui gruppi come la Nuova Compagnia di Canto Popolare o Giovanna Marini stavano rivalorizzando la tradizione musicale. Noi ci siamo ispirati a loro e abbiamo iniziato a comporre le nostre canzoni e fare i primi concerti nei club di Londra parlando sempre della nostra situazione di emigranti, raccontando la nostra vita di operai emigrati dalla Sicilia.

A un certo momento però decidete di ritornare in Italia, in Umbria. Perché l’Umbria e non la Sicilia?
Lorenzo: Nel nostro piccolo appartamento londinese avevamo aperto una sezione del Partito Comunista, intitolata a Carlo Levi, e organizzavamo delle riunioni con altri emigrati per parlare della situazione in fabbrica e di giustizia sociale. A fine anni settanta era però andata al governo Margaret Thatcher e da quel momento il sindacato aveva iniziato a perdere potere. Noi, un po’ alla volta, fummo trasferiti dalla catena di montaggio, che tutto sommato non era male, a lavori molto più pesanti e mal pagati. Così nel 1981 decidemmo di tornare in Italia e ci trasferimmo a Città della Pieve perché lì c’era un amico di Enzo, che aveva conosciuto durante il servizio di leva e con il quale era rimasto in contatto. Lui ci propose di fermarci a Città della Pieve. Lì il primo periodo è stato duro perché trovavamo solo lavori che ci consentivano appena la sopravvivenza. Continuando la nostra attività musicale, proponemmo all’Arci di Perugia uno spettacolo, Canto per una Sicilia nuova, che era la storia della Sicilia raccontata attraverso la condizione dei contadini, l’emigrazione, i missili nucleari a Comiso. A quel concerto c’era una ragazza tedesca la quale si innamorò della nostra musica e ci organizzò una serie di concerti a Monaco di Baviera. Arrivarono le prime recensioni, poi le prime tournée, quindi ci invitarono in Francia e poi in Spagna, dove incontrammo Joaquin Diaz, un etnomusicologo spagnolo, al quale piacquero le nostre canzoni e ci propose di incidere il nostro primo disco, Nesci Maria.

Perché, secondo voi, le prime esperienze importanti le avete avute all’estero invece che in Italia?
Enzo: Quando siamo tornati in Italia l’attenzione nei confronti della musica popolare stava iniziando a calare. E poi perché in Italia scontiamo il fatto di vivere in un paese piuttosto provinciale che soffre di esterofilia in tutte le manifestazioni culturali. Tuttora purtroppo è ancora così. Non apprezziamo certa musica perché non conosciamo quella che è la nostra tradizione. Quando cominciammo a interessarci di musica tradizionale, un ragazzo inglese che studiava italiano ci portò un LP, prodotto dalla Columbia University, nel quale Alan Nomax e Diego Carpitella, che avevano percorso in lungo e largo tutta l’Italia, avevano registrato la voce viva della tradizione contadina, dei carrettieri e dei pescatori. Quando lo ascoltammo scoprimmo l’immensa tradizione di cui noi eravamo portatori silenti. L’avevamo dentro però non sapevamo ancora dare un nome a questo patrimonio e dargli il giusto valore. Riuscire a guardare la tradizione musicale siciliana dall’estero, ci ha permesso di comprendere quanto questa fosse importante sia per la nostra formazione culturale che per le nostre esigenze espressive.

Com’è lavorare, suonare con un fratello? È diverso dal farlo con una persona “estranea”?
Enzo: Bella domanda… Noi siamo talmente abituati a lavorare insieme, a vivere insieme, che non sapremmo cosa rispondere se qualcuno ci chiedesse cosa si prova a non essere fratelli. Noi sappiamo solo essere fratelli, sia nel lavoro che nella vita. E una cosa non è scissa dall’altra, i due aspetti si compenetrano. So che può essere incredibile ma è così. La nostra vicenda è particolare proprio perché l’esperienza della vita e le nostre esistenze si intrecciano con la musica e con tutto quello che abbiamo fatto insieme. Ogni passo lo abbiamo sempre fatto l’uno accanto all’altro.

Questa unione chiaramente coinvolge anche chi vi sta accanto. Da loro com’è vissuta?
Lorenzo: Capiscono il rapporto di fratellanza che abbiamo e lo accettano.
Enzo: È anche vero comunque che il nostro rapporto non taglia fuori le nostre compagne. È chiaro che c’è un luogo dell’affetto, del sentimento, che noi due condividiamo e che le nostre compagne hanno il pudore e lo scrupolo di non invadere ma non per questo il nostro è un rapporto che esclude gli altri. Tutt’altro!

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