
Nonsolounlibro
Come potrei parlare della mia città?
Estate 1979.
Dei ragazzi suonano, uno di loro si chiama Toni. Il mare alle spalle, il tonfo del subwoofer sotto il mio sedere. Lo rivedrò 4 o 5 anni dopo, in un locale del centro. Lui suona ancora il basso, e il brano si intona alle prime pulsioni adolescenziali, di qualunque natura esse siano, si intitola “Animale” (<<… io ti credo ciecamente / tu fai parte della gente / se mi giudichi un po’ male / stai ferendo un animale…>>) e questo refrain lo cantiamo a gran voce.
Toni è il più basso di tutti. Sembra per i fatti suoi, oppure tamburellare con le corde per un gioco che non comprendo. Sembra inseguire note che nessun altro ipotizza o sogna.
(quando lo reincontrerò anni dopo, mi dirà che la musica sta dentro di noi, e dobbiamo essere proprio noi, solo noi, a tirarla fuori, senza una regola. Poi se ne è andato troppo presto. Ciao Toni)
Primavera 1984.
Circonvallazione. C’erano ancora i semafori, e uno zio che scende dall’Alfasud a comprare le sigarette. Lo stesso zio che – quasi sotto casa, pochi mesi prima – era sceso in strada, e io dietro di lui, attirato dagli ululati delle sirene, dal clamore surreale che arrivava dal Cibali. E non giocava il Catania, in notturna.
(dicevano che era Peppe Fava, quella Renault franta, quei cocci disseminati, i flash e il brusio vorace, quelle facce nella penombra lampeggiante, alcune quasi compiaciute per quel misfatto)
Tornato in macchina, mi aveva intimato col suo solito tono, a metà tra il burbero e il sarcastico, di mettermi alla guida. “Tanto sono tre pedali, lo sai no?...”. Aveva spaginato il suo quotidiano ‘La Sicilia’ e aveva iniziato a leggere. Mentre io sudavo (e non per il caldo) e Battiato cantava <<…il senso del possesso / che fu pre-alessandrino / la tua voce come il coro delle / sirene di Ulisse m’incatena…>>.
La prima accelerata mi sfuggì quasi da sotto il sedere, e lui non fece una piega. Fortuna volle che mi ancorassi dietro a una macchina ferma al semaforo.
“Guarda che questo qua davanti a noi ha parcheggiato, non è in fila…”, borbottò senza alzare il naso dalla lettura.
Oppure?
(<<…quanto mi sembrava grande / questa città quando ero un bambino, / qui si è formata la mia intelligenza…>>, Mario Venuti, “Anni selvaggi”)
Ho provato a tratteggiare Catania – o meglio: quella Catania che ancora affiora, solare e controversa, dai miei romantici ricordi di bambino, adolescente, ragazzo, studente – in diverse occasioni e nei modi meno ortodossi, senza mai riuscire ad andare oltre a dei bagliori, a delle nostalgie, a certi profumi e taluni schizzi aspri come quelli d’un limone, gettato a terra e calpestato, su un marciapiede che scricchiola di cenere lavica.
Ho soltanto sfiorato certe realtà di quartiere, il tanfo di chiuso, la nebbia delle grigliate, i motori contromano, i muri cadenti, la spazzatura sparpagliata, certe facce scolpite dal silenzio, solcate dalla vita ai margini, la cantilena delle voci che echeggiano nell’ombra dei labirinti lavici.
Per il resto, Catania era per me la grande città, il baricentro dal quale muoversi oltre era piazza Montessori, mai valicare – da un lato o dall’altro – ‘a vanedda ‘a cucchiara’ (la via Forlanini), o scavalcare la ringhiera di Villa Bellini attraversando il rettifilo ad alta velocità della via Tomaselli.
Spingersi da adolescente fin dentro ‘a fera o luni’ era una concessione alla curiosità, ma ero già più grandetto; addentrarsi da ragazzo alla ‘Piscarìa’ una immersione rischiosa, da temerari. Scavalcare il reticolo rugginoso fin dentro il teatro greco una bravata per pochi, quando invece ammirare la porzione di anfiteatro romano di piazza Stesicoro rappresentava la sfilata borghese, fino al salotto della via Etnea.
L’ingresso in tribuna, ‘razza etnea’, col rossoazzurro sulla pelle, ché le curve erano un covo di ‘malosangue’.
Di recente mi è capitato di dire – parlando con un amico – che sarei in grado di riconoscere in quale zona di Catania mi trovo semplicemente dall’odore, annusando l’aria come un randagio. Oppure attraverso certi rumori (suoni, avevo detto: suoni). E lui mi aveva osservato con il suo sguardo ‘di sghimescio’ e mugugnando rauco: “Quella è la Catania che tu ricordi di aver vissuto… Oggi perderesti bussola e pazienza…”
Ha ragione lui. Probabilmente, come in molte delle cose che vado scrivendo, la mia memoria tracima e s’impantana nella realtà corrente. Che ha ben poco di romantico, di odoroso e di armonioso, se non fosse che su troppi muri, dietro angoli sbrecciati, a ridosso di slarghi improbabili, sono spiaccicati ricordi, paure, infatuazioni e incoscienze.
E sogni andati.
[…Mio zio Michele mi sguinzagliava per Catania come sotto una tenda asfittica anice e vaselina, e io adoravo quell’aria di libertà che sapeva di zagare e salmastro, le scimmie dei giardini Bellini e il pescato guizzante, le graffe del signor Marchese e le esposizioni di frutta sotto l’archi, il ‘liotru’ e l’’acqua o linzolu’, le cornici di sciara e quel blu cobalto sotto il castello di Aci, dove in mutande imparai a nuotare per legittima difesa. Lo zio Nitto e le ostriche succhiate come femmina, le partite nella piazzetta e il primo coltello nella tasca di un amico, il gelato a Ognina, i rotolamenti sul prato di Piazza Europa, il mandarino al ciospo Giammona. I muezzin della ‘fera’ e gli oleandri della ‘villa degli sbadigli’, i luppini del Primosole. Le mie coetanee, civettuole sì ma con retrogusto selvaggio…]
E invece
C’è una canzone, dal titolo In bianco e nero, nella quale Carmen Consoli descrive la madre attraverso alcune foto di lei negli anni ’60, in una “raggiante Catania”.
Bene, ogni qualvolta Carmen intoni quel “… nitido scorcio degli anni sessanta / di una raggiante Catania…”, il pubblico, qualunque pubblico, la accompagna e prorompe in un tripudio.
Così è successo anche durante un concerto a Roma, al quale ero presente come ospite.
Da questo verso deve aver preso spunto Domenico Trischitta, scrittore, giornalista e saggista catanese, vincitore del Premio Martoglio nel 2009, proprio con quel suo libro che porta questo titolo. Una raggiante Catania, riedito nel 2021 con una prefazione del filosofo Manlio Sgalambro.
Nel romanzo di Trischitta c’è questo amore neorealistico, crudo e scuro, per Catania, trovando poesia e ballate proprio nei bassifondi più emarginati, nelle periferie desolate, tra i sobborghi degradati, e persino tra rapporti umani veri e tossici. Rimestando con ingenuo disincanto tra le memorie di una città che è andata – e ancora va – troppo veloce per non dimenticare.
Il quartiere da cui muove Trischitta è quello di San Berillo – alle spalle dei palazzoni del Corso Sicilia, spartiacque moderno tra il mercato storico e quel degrado urbano – ad inizio anni ‘70 ‘trasferito’ e poi emarginato nella zona nuova, in una periferia crepuscolare, San Leone: l’ennesimo rione anonimo e abbandonato a se stesso, incubatore di una gioventù senza più radici. Come Monte Po, come Canalicchio, San Giorgio. E Librino.
I personaggi che si muovono in questa storia SONO essi stessi la città, il quartiere, con tutte le contraddizioni e le disillusioni tipiche di quella stagione, quella che barcolla oscura tra gli anni ’70 e ’80. Quella dei nonni che ancora tramandavano, dei ‘falchi’ che scorrazzavano senza regole, dei mestieri che resistono; quella dei morti per strada al Fortino e degli ormoni sfogati sulla sciara,o in qualche tugurio malmesso del ‘tondicello’ della Playa, magari con la straniera di stagione.
Quella delle stagioni buie come la pietra lavica, e di quelle assolate che esplodevano di speranze colorate ‘comu i bbummi ro tri’ (i giochi pirotecnici della festa di Sant’Agata, ogni 3 Febbraio).
Trischitta tenta di ripescare il recente passato di una città viva proprio in tutte le sue contraddizioni, e di gettare quei retaggi sempre più smagliati su un tessuto connettivo oramai incontenibile, frenetico.
E lo fa senza sconti, senza edulcorazioni. Senza speranze. Nessuna illusione o indulgenza.
Con tanta musica in sottofondo.
Così, il mio mare era quello limpido e odoroso nel quale mi gettarono, in mutande, per imparare a nuotare, o quello del Paradiso degli Aranci dentro le cui trasparenze restavo a sobbollire per mattinate intere. Il mio mare era una brezza di olio solare e tavole bagnate, sventolio dolciastro di oleandri, aliti di sigarette e iodio.
Il suo è quello inaccessibile e maleodorante della distesa dei lidi e degli scarichi della scogliera. Quello tumultuante e impervio che schianta carcami e orizzonti.
Tra la mia Catania e la sua, dunque, tumultua la scintilla della memoria vista come da due sponde opposte, e attraverso percorsi antitetici. Un po’ come leggere “I vicerè” di De Roberto o “I Malavoglia” di Verga. Sospirare la “Norma” di Vincenzo Bellini o tamburellare “Re Bufé” di Alfio Antico.
Soltanto che quella vera è la sua. Raggiante, ma solo per disincanto, per rassegnazione.
Un travolgente divenire, come il magma delle eruzioni e le costruzioni sventrate. Come la corsa della processione della Santa su per la salita di Sangiuliano.
E grazie al suo libro rivedo – e ridipingo – tutte le sfumature della mia Catania. E anche le mie.
Tutte, nessuna esclusa.
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