Non è mai facile parlare di malattia: crea disagio, insicurezza, tristezza; lo è ancora di più se la malattia riguarda se stessi.

Sei mesi fa, dopo essere stata operata per un linfonodo nel cavo ascellare, ho scoperto, grazie all’esame istologico, che esso non era altro che un carcinoma mammario lobulare di tipo G3, un “parolone” medico-scientifico per dire che si trattava di un tumore aggressivo al seno. Il mondo mi è caduto addosso. Ho cominciato a vivere “sospesa” tra un esame e l’altro nella corsa contro il tempo. È lì, in quel momento sospeso, che la mia vita ha cambiato direzione senza chiedermi il permesso. Scoprire di essere malata è stato come sentire un rumore nuovo dentro il silenzio: improvviso, dissonante, eppure innegabile. Mi ha attraversata. Mi ha obbligata a fermarmi. Non importa quale sia il nome della malattia, ciò che colpisce davvero è la consapevolezza che il corpo, quello stesso corpo che avevo sempre dato per scontato, ha iniziato a parlare con una lingua che non conoscevo. All’inizio c’era il rifiuto. Mi aggrappavo all’idea che si trattasse di un errore, un malinteso, un referto scambiato. Poi è arrivata la rabbia, il senso di ingiustizia, ma piano piano, spesso senza accorgermene, ho iniziato ad ascoltare. Il corpo non era più un mezzo, ma un messaggio. Ogni sintomo diventava una parola nuova, un modo per ricordarmi che esistevo, che ero fragile, ma anche incredibilmente viva. La malattia ti spoglia, ti costringe a guardarti nuda, senza ruoli, senza maschere. Ti rivela chi sei quando tutto il resto cade: quando non puoi più fingere di avere tempo infinito, quando le priorità si restringono all’essenziale. E lì, in quella nudità, qualcosa di silenzioso fiorisce. Non è speranza, non ancora. È piuttosto una forma di presenza. Ho cominciato a sentire la vita in modo diverso: nei gesti semplici, nei respiri lenti, nella voce di chi mi restava accanto senza parlare. Ho imparato che ogni giorno deve essere assaporato, lasciandomi cullare dalla bellezza della natura, dell’arte, dell’amore di chi abita il mio cuore in stanze sicure e certe, vivendo di piccoli gesti quotidiani di consapevolezza. Scoprire di essere malati non è solo l’inizio di una cura, ma anche di una conoscenza. Conosci il limite, ma anche la forza. Conosci la paura, ma anche la tenerezza che può nascere da essa, esprimendo le emozioni affidate al mare dell’anima, respirando a cuore pieno. E forse, alla fine, impari che la malattia non è una frattura nella vita, ma una sua traduzione più sincera, perché è lì, nel dolore, che spesso si impara la grammatica dell’essere umani.

In tutto il percorso di apprensione, conoscenza e speranza , un ruolo fondamentale, di supporto innegabile lo svolgono i miei “care givers” , le persone che si prendono cura di me e che sono diventati una presenza che tiene insieme i frammenti. È in questo spazio fragile che essi non sono solo mani che aiutano, ma presenze che ascoltano. A volte non parlano, sanno stare accanto nel silenzio, eppure dicono tutto. Mi insegnano che la cura non è compassione: è una forma di dignità condivisa, è un “io ci sono” che attraversa la fatica. Nei loro gesti, nel loro “esserci” c’è un amore concreto, fatto di azioni piccole e quotidiane. Non so se gliel’ho mai detto davvero, ma la loro presenza è la mia àncora. Quando la paura mi afferra, loro restano. E in quell’atto semplice — restare — c’è tutto il senso della vita. Perché la malattia può togliermi molto, ma non può togliermi l’amore che passa attraverso chi mi cura e mi sta accanto. È la prova più luminosa che, anche nella fragilità, si può continuare a essere umani insieme.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *