
Non molto tempo fa, mi sono innamorata. Sembrava il momento giusto per farlo: il mio gatto era morto e avevo un viaggio da fare entro due mesi. Sono caduta nella sfortuna di Tinder. Quella quotidianità contemporanea che attraversa mari e continenti, la cosa di oggi. Tutto è iniziato con un suo messaggio. Minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Le nostre conversazioni sono diventate routine necessarie che mi obbligavano a mantenere una punteggiatura coerente. Lui non sapeva che classificavo i miei pensieri per colori. Che contavo i passi tra un’idea e l’altra. Che organizzavo tutto in un file Excel, in note vocali, in gesti minuziosamente studiati con memoria fotografica. Che il conoscerci di persona e stare insieme aveva una data precisa segnata nel mio calendario, un’ora esatta per chiamarlo per nome e prenderlo per mano, il nostro primo bacio in una stazione dell’Emilia-Romagna.
Il ragazzo di Parma non sapeva nulla di tutto ciò, o forse sì, e gli sembrava dolce. Mi diceva che ero “dolcissima”, “bella”, “stupenda”. Che voleva provarci, “vedere cosa succedeva”. Pecché gli italiani hanno sempre quella parola sulle labbra, il “vedremo” come simbolo di un’incertezza che può far tremare o irritare chiunque non appartenga alla loro patria.
Parlava lentamente, con quella serenità del nord Italia che sembra un incantesimo. Mi raccontava della sua città, degli edifici ocra, dei suoi hobby, del suo lavoro, della sua vita personale che sembrava più un segreto. Io contavo i secondi tra ogni messaggio. Mi immaginavo scenari futuri, segnavo su Google Maps dove mi sarebbe piaciuto andare con lui nella sua città: i musei, le chiese, il Battistero di marmo rosa, i ponti, i parchi.
Tutto sembrava così preciso che finii per fidarmi troppo. Gli aprii il mio cuore come gli aprii il mio corpo quando arrivai a Parma nel settembre 2025. Dal vivo era incredibile. Fu un colpo di fulmine. Mi ipnotizzò il suo sorriso, le sue espressioni, il suo modo di essere con me, come se mi conoscesse a fondo, come se avessimo vissuto mille vite insieme, molto prima. Questo mi fece abbassare la guardia senza rendermi conto che la mia ossessione per controllare tutto, per avere tutto in ordine nella mia vita e nel mio itinerario, poteva trasformarsi in un caos meraviglioso.
Ridevamo. Giocavamo. Camminavamo mano nella mano all’inizio, ma quando passeggiavamo mi lasciava e camminava più veloce. Andava sempre di fretta, come se il suo corpo glielo chiedesse. In macchina e a piedi, guardava da entrambe le parti quando vedeva passare altre ragazze. Come se si proteggesse dallo sguardo o flertasse con altre. Volevo credere che fosse la seconda. La prima notte fu magica. Una settimana dopo decisi di cancellare metà del mio soggiorno a Napoli per tornare da lui. Credevo che andasse tutto bene. Che tutto fosse reale. Passammo i giorni più intensi. Tra il sesso e l’amore. Tra le promesse di provarci e venire in Messico per stare insieme. Fino a quando, accompagnandomi all’aeroporto di Milano, disse “TI AMO, SEI TUTTO PER ME”… e io gli credetti.
Ma quando arrivai in Messico, tutto cambiò. Si allontanò poco a poco. Le prime scuse furono il troppo lavoro. Ma verificai che una persona impiega esattamente sette secondi per inviare un messaggio. Mi sembrava strano. Evasioni. Risposte ogni cinque ore, ogni otto, il giorno dopo, la sera dopo. Poi, un giorno qualsiasi, il silenzio. Nessun motivo. Nessuna lite. Solo quel vuoto digitale che non fa rumore ma urla.
All’inizio pensai che fosse successo qualcosa. Poi, che forse avevo fatto qualcosa io. Rividi le conversazioni, i punti, gli spazi, i verbi. Cercai simmetrie, contraddizioni, tracce dell’errore. Passai ore a dissezionare le frasi, come se in esse potessi trovare un indizio, una crepa, un “è stato lì”.
Niente.
Il silenzio del ragazzo di Parma diventò il mio nuovo algoritmo. Ogni giorno cercavo di risolverlo come un problema matematico che rifiuta di avere una soluzione. Non sopportavo che non ci fosse logica. Non sopportavo che la storia non si chiudesse. Finché un giorno: crollai. Mia madre mi trovò a terra, in lacrime, con convulsioni: attacco d’ansia grave. Dicono che il ghosting sia una forma di violenza che può somigliare a un colpo. Il sistema nervoso smette di funzionare come prima, ma inizi anche a sentire di non essere abbastanza. L’abbandono, il rifiuto. Cominciai a piangere giorno dopo giorno, sentendo come milioni di spilli mi pungessero dentro, dalla gola fino alle punte dei piedi. Mi resi conto che il vero mostro non era la sua assenza, ma il mio bisogno di spiegarla.
L’incertezza non uccide. Solo disordina. E io, che per tutta la vita avevo voluto controllare tutto, finii per imparare che ci sono vuoti che non devono essere riempiti. Il ragazzo di Parma sparì. E, per la prima volta, non cercai di trovarlo, anche se ora mi faceva orbiting, quella manipolazione emotiva del non parlare, del non cercare, ma guardare le mie storie su Instagram.
Scrivo questo non per attirare la sua attenzione.
Guardo foto della sua città sui social e immagino che lui cammini lì.
Che sia con i suoi amici, al parco, sul ponte, sulla strada.
Ho iniziato a fare zoom alle foto.
Osservo le sagome e cerco il suo corpo tra le ombre.
Non sono pazza, è il suo silenzio che mi ha fatta impazzire.
Scrivendo lunghe lettere che non penso di inviare per dignità.
Sono stanca di cercare un errore nell’ultima conversazione.
L’eco della sua voce vibra nelle mie palpebre.
Non ho più occhi.
Non ho più sonno.
Ho iniziato ad arrivare tardi ovunque.
A contare otto ore in più per sapere cosa starà facendo.
I lunedì sono post domeniche.
Il giovedì penso che non mi pensa più.
I miei pensieri non hanno più colore.
Il mio cuore è polvere di stelle.
…
Ora ho lasciato il telefono acceso, nel caso “forse”.