
Nonostante mi sia innamorata a prima vista del paesaggio ibleo – dove il vero protagonista è il muretto a secco – ho scoperto solo grazie alla collaborazione con questo giornale che il manufatto in pietra affonda le sue origini nell’epoca romana, quando veniva chiamato opus incertum. Un nome quanto mai appropriato: basta osservare anche un breve tratto di questi muri per coglierne la singolare varietà. Ogni costruzione è diversa, persino quando è opera dello stesso artigiano. Incerta nell’estetica, ma non nella solidità – come già ricordava Vitruvio. L’architetto e scrittore romano, nel suo trattato De Architectura, scritto alla fine del I sec. a.C., dedica un capitolo alle diverse maniere di murare, e nello specifico afferma:
“Le maniere di murare sono queste: la Reticolata, la quale ora è comunemente in uso; e l’Antica, che si chiama Incerta. Di queste la Reticolata è la più elegante, ma è anche la più sottoposta a fendersi, perché non ha né letti stabili, né legature forti; l’Incerta poi, sebbene abbia i sassi posti gli uni sopra gli altri e legati alla rinfusa, pur rende la fabbrica, se non bella, assai più soda della Reticolata.”
La tecnica costruttiva romana si distingue per l’uso della malta, elemento che la differenzia dai veri e propri muri a secco. I Romani realizzavano una doppia cortina, ossia due pareti esterne di muratura tra le quali veniva versato un riempimento di pozzolana. Il principale vantaggio dell’opus incertum consisteva nella possibilità di evitare un preciso allineamento dei singoli blocchi: la massa cementizia, infatti, li legava saldamente, garantendo compattezza e stabilità. Nata alla fine del III secolo a.C., la tecnica dell’opus incertum si perfezionò fino al I secolo a.C., soprattutto dal punto di vista estetico. Le pietre, inizialmente grosse e irregolari, vennero progressivamente selezionate con maggiore cura, assumendo forme sempre più regolari e minute, fino a giungere al celebre opus reticulatum, in cui i blocchetti di pietra, tagliati in forma quadrata, disegnavano il tipico motivo a reticolo.

Facciamo ora un lungo salto nel tempo e torniamo al nome del giornale e della casa editrice, che rende omaggio al paesaggio ibleo. Questo territorio mi apparve subito suggestivo e severo, scandito dalle linee dei muretti e punteggiato dagli ulivi e carrubi. Mi chiesi se gli innumerevoli fazzoletti di terra delimitati dai muretti a secco corrispondessero a singole proprietà terriere, ho imparato poi che quel fitto reticolato ha assunto, nel tempo, significati molteplici, sia storici che pratici.
Le prime testimonianze scritte di questi manufatti risalgono alla metà del Cinquecento, quando nella Contea di Modica – allora governata dagli Enríquez Cabrera – le terre vennero concesse in enfiteusi: un contratto di lungo periodo detto miglioratario, in quanto obbligava gli affittuari a interventi che avrebbero, nel tempo, aumentato il valore dei fondi.

Tra questi doveri sopratutto lo spietramento per facilitare la coltivazione dei terreni. Le pietre rimosse, inizialmente raccolte in recinti detti muragghi – che donavano ordine e valore estetico ai semplici mucchi di pietre – vennero poi utilizzate per recintare sia i terreni in affitto sia quelli limitrofi e incolti, trasformando così i fondi in chiuse, all’interno delle quali i massari distinguevano, proprio grazie ai muri, la rotazione delle culture, le aree coltivate da quelle riservate al pascolo. Questa pratica si mantenne nei secoli, come testimonia l’abate e agronomo Paolo Balsamo, che nel 1808 descrive così la campagna di Ragusa:
“È divisa in poderi, o masserie, di venti, trenta, cinquanta e più salme; e queste sono partite in campicelli di due o tre salme, chiusi con muriccioli di pietre sovrapposte le une alle altre senza verun cemento; e fa veramente piacere il mirare in quelle utilissime chiusure ora lussureggianti biade e legumi, ed ora numerosi armenti.”
I muretti a secco del Sud-Est siciliano sono realizzati con una semplice giustapposizione di pietre di varie dimensioni, la cui stabilità è garantita dall’attenta selezione e dal preciso incastro dei singoli elementi. Questa tecnica costruttiva è stata riconosciuta nel 2018 come Patrimonio Immateriale dell’Umanità dall’UNESCO, in quanto elemento transnazionale condiviso da molti Paesi europei.
Ancora oggi si continuano a costruire muretti a secco, anche se non sempre nel rispetto delle tecniche originarie. Alcuni, infatti, presentano superfici levigate, oppure vengono edificati con un’anima di cemento – una soluzione che riduce i costi di manutenzione ma annulla le funzioni ecologiche dei muretti tradizionali. Durante la stagione calda, i muretti a secco catturano l’umidità atmosferica attraverso la condensazione del vapore acqueo che penetra negli interstizi tra le pietre. Dopo il tramonto, con il raffreddamento notturno, le minuscole gocce d’acqua si condensano e scendono lentamente nel terreno, che le assorbe. È un processo discreto ma vitale, che fornisce l’acqua necessaria a ulivi e carrubi, piante simbolo di queste terre aride e luminose.
La necessità di sgomberare i campi dalle pietre si è sempre conciliata con il bisogno di costruire, tanto più che la pietra iblea, chiara e porosa, è un materiale facile da lavorare ma al tempo stesso resistente e durevole. Da questa naturale disponibilità sono nati, nel corso dei secoli, arti e mestieri che hanno segnato l’identità del territorio: il cavapietre, lo scalpellino e l’intagliatore, ciascuno con un ruolo specifico nella lunga filiera della lavorazione lapidea. Chi univa abilità tecnica, precisione e gusto artistico veniva chiamato in dialetto ’u murassiccaru: il mastro della pietra, colui che sapeva trasformarla in forma e architettura. Nelle aree rurali, oltre ai già citati muragghi, si incontrano strutture a pianta circolare – in alcuni casi veri e propri capanni – coperte da una falsa cupola e usate come rifugi per pastori e contadini, nonché le carcare, forni per la cottura della pietra e la produzione della calce, oggi reperti di archeologia industriale “prima maniera”.
I muretti a secco, l’opus incertum, frutto del lavoro paziente di mani ormai perdute nel tempo, raccontano una tradizione antica, capace di unire utilità ed estetica in un equilibrio che ancora oggi affascina. Da questa stessa ispirazione nasce Opera Incerta, una rivista che vuole mettere in dialogo cultura e territorio, riflettendo sulla necessità di costruire una conoscenza sempre aperta e in movimento. Credo infatti che, come nelle pietre disordinate ma sapientemente accostate, anche nella cultura non esiste mai una forma definitiva: ogni contributo aggiunge consistenza, ogni sguardo rinnova il senso del tutto.