
Quando la polis andava in scena: la tragedia come palestra di democrazia
Oggi, nella maggior parte dei casi, se pensiamo al teatro lo associamo immediatamente a un passatempo, un divertissement. Magari qualcuno è anche un appassionato, mentre altri vengono trascinati in platea giusto per il gusto di passare una serata diversa, magari per farsi quattro risate con una commedia in vernacolo. Ad ogni modo, si sceglie con cura cosa andare a vedere, si prenota una data, ci si accorda per un orario e si va insieme in questa o quell’altra location ad assistere a uno spettacolo, per poco più di un’ora – se si andasse troppo oltre alcuni potrebbero considerarlo sequestro di persona.
Oggi nessuno – almeno credo, ma siete liberi di confutarmi nei commenti – sente più così forte il dovere civico di andare a teatro. Eppure, alla genesi della tragedia greca era quello lo spirito.
Anche quando proviamo ad avvicinarci all’esperienza originale del teatro greco, recandoci a Siracusa per assistere alle annuali rappresentazioni messe in scena dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico, non abbiamo che una pallida imitazione del sentimento che animava i nostri avi Greci quando si riunivano ad Atene, nel Teatro di Dioniso.
E siccome dai Greci abbiamo sempre tanto da imparare, provo a descrivervi, per cenni, quanto fosse diversa l’esperienza del recarsi a teatro duemilacinquecento anni fa. Chissà che non ci torni utile.
A teatro non per svago, ma per essere cittadini
Nell’Atene del V secolo a.C. il teatro non era un passatempo: era un dovere civico.
Durante la celebrazione delle Grandi Dionisie, la città si fermava. I tribunali sospendevano i processi e anche i prigionieri ottenevano la libertà temporanea. Tutta Atene, e con lei tutta l’Ellade, si riversava nel teatro di Dioniso per assistere a tragedie che non erano solo spettacolo, ma parte integrante della vita politica.
Guardare una tragedia significava partecipare alla costruzione della polis.
La musica, la poesia e il teatro avevano un ruolo educativo fondamentale: servivano a formare il cittadino, a insegnargli i valori della comunità, a farlo interrogare sul senso della giustizia e del potere.
Come osserva lo storico Christian Meier, la tragedia greca fu «un’arte politica, necessaria al cittadino quanto le sue – restanti – istituzioni politiche».
Le Grandi Dionisie: religione, spettacolo e potere
Ogni primavera, Atene celebrava le Grandi Dionisie, una delle feste più solenni dell’anno. Ufficialmente dedicate a Dioniso, il dio del vino e del teatro, erano in realtà una cerimonia politica di enorme portata.
Durante quei giorni la città greca apriva i suoi porti agli stranieri e ai delegati delle città alleate nella Lega delio-attica, che approfittavano della festa per consegnare i loro tributi alla città. Lo spettacolo, insomma, era anche un manifesto di potere di Atene, che andava a ricoprire di fatti la posizione di “prima inter pares” rispetto alle altre poleis alleate.
Il corteo d’apertura, la processione dell’effigie di Dioniso, gli inni e i sacrifici erano atti religiosi, ma carichi di significati politici. Nel teatro, prima ancora che iniziassero le rappresentazioni, si onoravano i caduti in guerra facendo avanzare in processione i loro orfani della cui educazione si era fatta carico l’intera comunità ateniese, si accoglievano poi gli ambasciatori che recavano i tributi e si proclamavano premi civici: la festa diventava una vetrina della grandezza ateniese, un modo per ribadire davanti al mondo elleno la supremazia della polis.
Ma a rendere unica la festa era la competizione teatrale: davanti a migliaia di spettatori, per tre giorni venivano portate in scena tre tragedie e un dramma satiresco, infine un giorno era dedicato all’agone delle commedie.
La religione, la politica e l’arte si fondevano in un’unica celebrazione della città.
Lo studioso Charles R. Beye ha sottolineato che le Dionisie, più che un rito religioso, erano «una festa statale»: il teatro di Dioniso diventava il palcoscenico della potenza ateniese.
Un teatro per tutti: la democrazia sugli spalti
Il teatro di Dioniso poteva ospitare circa ventimila spettatori.
Grazie al theorikón, un sussidio istituito da Pericle, anche i cittadini più poveri ricevevano il denaro per pagare il biglietto: due oboli, circa il salario di una giornata.
In un colpo solo, il teatro diventava lo spazio più democratico della città.
Non si sa con certezza se le donne potessero assistere alle rappresentazioni. Probabilmente solo le più abbienti o le mogli dei cittadini più in vista vi erano ammesse. Ma è certo che accanto agli ospiti delle delegazioni straniere e ai cittadini sedessero meteci (ossia gli stranieri residenti ad Atene) e schiavi, testimoni di una partecipazione collettiva unica nel mondo antico.
Per tre giorni, dall’alba al tramonto, il pubblico restava sugli spalti a seguire le tragedie. Si mangiava, si beveva vino, si discuteva. In quelle ore la città si faceva comunità, e la comunità diventava teatro.
Dietro le quinte della tragedia: politica e organizzazione
Ogni spettacolo era il risultato di una complessa macchina civica.
Gli autori che volevano partecipare al concorso presentavano le loro opere all’Arconte Eponimo, una carica pubblica che selezionava i testi più meritevoli, come una sorta di direttore artistico. Era lo Stato, dunque, a decidere quali tragedie sarebbero state messe in scena.
Il finanziamento spettava ai coreghi, cittadini ricchi scelti dall’Arconte.
A loro toccava pagare gli attori, i costumi, le scenografie, e mantenere il coro per tutto il periodo delle prove – lunghe circa nove mesi – durante le quali i coreuti erano dispensati dai loro lavori ordinari. Era una delle liturgie civiche più prestigiose: un onore ma anche un impegno politico.
Essere corego significava mostrare generosità verso la polis e guadagnare allo stesso tempo prestigio.
Anche Pericle, prima di diventare stratega, fu corego dei Persiani di Eschilo nel 472 a.C.: un dramma che celebrava la vittoria di Atene sui Persiani, unendo arte e propaganda.
Il pubblico come corpo politico
Il teatro ateniese non era solo un luogo di spettacolo: era un’assemblea di cittadini.
Ogni tragedia diventava un’occasione per riflettere sui valori comuni, sulle leggi, sui limiti del potere.
La stessa competizione teatrale seguiva un modello democratico.
I giudici, dieci in tutto, venivano estratti a sorte – uno per ogni tribù della città – e solo cinque dei loro voti, scelti casualmente, determinavano il vincitore.
L’elemento di aleatorietà non era un difetto, ma un segno di fiducia nella giustizia del processo: così nel teatro la casualità diventava garanzia di equità e mezzo per evitare ogni possibile corruzione dei giurati.
Il giorno dopo le rappresentazioni, la cittadinanza tornava a riunirsi nello stesso teatro per discutere dell’organizzazione della festa e delle tragedie viste.
Il dibattito pubblico era parte integrante dell’evento: il ruolo civico del teatro non finiva con l’ultima battuta, ma continuava nel confronto collettivo della comunità.
Il teatro come scuola di democrazia
La tragedia serviva a educare la polis.
A differenza della filosofia, che parlava a pochi, la tragedia era filosofia in forma popolare: poneva domande etiche e politiche attraverso la forza delle emozioni.
Gli Ateniesi, reduci dalle riforme di Clistene e dalle guerre persiane, vivevano un’epoca di trasformazioni rapide, che li portava a una posizione di predominio sul mondo ellenico. Le vecchie regole non bastavano più: serviva un nuovo linguaggio per riflettere sul potere, sulla giustizia, sul ruolo del singolo nella comunità.
La tragedia divenne quel linguaggio.
Meier parla di un bisogno di creazione di un “sapere nomologico”, cioè del processo di definizione di un sistema comune di principi morali e politici che permettesse di orientarsi nel mondo in cambiamento.
Le tragedie, con le loro storie di colpa, espiazione e giustizia, offrivano alla città l’occasione per ridefinire il proprio codice etico.
Conosci te stesso: la tragedia come specchio
Il motto delfico “Conosci te stesso” trova nella tragedia la sua traduzione scenica.
Attraverso il dramma degli eroi, il pubblico imparava a guardarsi dentro.
Quando Oceano dice a Prometeo: «Riconosci chi sei, adattati alle forme nuove», Eschilo non parla solo al titano incatenato, ma anche agli Ateniesi, invitandoli a confrontarsi con le trasformazioni della loro città.
Lo storico Jean-Pierre Vernant spiegava che la tragedia non si limitava a riflettere la realtà, ma la problematizzava, portando in scena la tensione tra il vecchio ordine religioso e il nuovo pensiero politico.
Sul palco, Atene si interrogava sul conflitto tra tradizione e innovazione, tra giustizia divina e legge umana, tra individuo e collettività.
Ciò che la politica cercava di risolvere con la parola e il voto, il teatro lo esplorava attraverso il mito e l’emozione.
Il coro: la voce della comunità
Elemento centrale della tragedia era il coro, eredità dei riti dionisiaci.
Il coro cantava, danzava, commentava l’azione: rappresentava la voce della polis.
Spesso composto da anziani, donne o stranieri, dava voce a chi non poteva parlare nei luoghi ufficiali del potere. Era la coscienza collettiva del dramma.
Nel corso del tempo, il suo ruolo diminuì.
Se nelle tragedie di Eschilo il coro occupava oltre un terzo della scena, in quelle di Sofocle ed Euripide la sua presenza si ridusse a una funzione di commento.
Con la perdita del coro, la tragedia si fece più individuale: segno di una crisi della coralità politica che avrebbe accompagnato anche il declino della democrazia ateniese.
Il linguaggio del mito: attualità e universalità
I miti messi in scena erano noti a tutti.
Il pubblico conosceva già la storia di Edipo, di Medea o di Oreste: ma ciò che contava non era la trama, bensì il modo in cui il mito veniva reinterpretato.
I tragediografi usavano il passato per parlare del presente. Il mito diventava una lente per osservare la realtà politica.
Nell’Orestea, Eschilo racconta il passaggio dalla vendetta familiare alla giustizia pubblica, incarnata nel tribunale dell’Areopago: un’allegoria della nascita dello Stato di diritto.
In Antigone, Sofocle esplora il conflitto tra legge umana e legge divina.
Euripide, più tardo e più disincantato, mostra invece la crisi della fiducia nella polis, anticipando il tramonto della tragedia.
La studiosa Jacqueline De Romilly ha scritto che «la tragedia si definisce più per la natura degli interrogativi che pone che per quella delle risposte che fornisce».
In altre parole, non offre soluzioni: costringe lo spettatore a pensare.
Empatia, catarsi e consapevolezza
Gli spettatori vivevano la tragedia con intensità fisica.
Provavano pietà per le sventure degli eroi e terrore al pensiero di poterle condividere.
Ma quella sofferenza generava conoscenza: attraverso la catarsi, il pubblico riconosceva i propri limiti, capiva la necessità della misura e della giustizia.
Il dolore in scena non era sterile. Era un rito collettivo che trasformava l’emozione in consapevolezza, in piena rispondenza della celebre locuzione greca del “pathei mathos”.
Come osserva Enrico Stolfi, «patire e sapere sono compenetrati, intessuti della stessa sostanza».
Solo conoscendo il dolore, l’uomo poteva comprendere sé stesso e il suo ruolo nella comunità.
Quando la polis era protagonista
Dietro ogni eroe tragico c’era sempre la città.
Antigone e Creonte, Oreste e Atena, Prometeo e Zeus: tutti combattono per definire i confini della giustizia, del potere, della libertà.
Ogni tragedia era un dibattito pubblico in forma poetica.
Nel momento in cui la polis si interrogava su sé stessa attraverso il teatro, nasceva una forma di autocoscienza politica che non avrebbe avuto eguali nella storia.
Il teatro non rappresentava la democrazia: era la democrazia.
Declino e eredità
Con il tempo, la tragedia perse la sua funzione originaria.
Quando l’individualismo prese il posto della comunità, e la fede negli dei e nella città cominciò a vacillare, anche il teatro cambiò volto.
Euripide, con le sue figure tormentate e i suoi finali ambigui, rappresenta questa svolta: non è più la polis al centro, ma l’individuo e i suoi conflitti interiori.
Eppure, l’eredità di quella stagione resta immensa.
Per la prima volta nella storia, l’arte diventò politica nel senso più alto: strumento di conoscenza collettiva, specchio della civiltà, esercizio di cittadinanza.
La lezione di Atene per il mondo moderno
A duemilacinquecento anni di distanza, la tragedia greca continua a parlarci.
Ci interroga sul rapporto tra potere e giustizia, tra individuo e società, tra libertà e responsabilità.
Ogni volta che torniamo a vedere un’Antigone, un’Orestea o una Medea, riviviamo quell’esperienza collettiva che trasformava gli spettatori in cittadini.
Nel mondo antico, il teatro era un luogo di politica, non di intrattenimento: lì si imparava a pensare, a discutere, a decidere.
Forse la più grande lezione della tragedia greca è proprio questa:
una democrazia vive solo se sa raccontarsi, guardarsi e riconoscere le proprie contraddizioni.
Noi abbiamo davvero smesso di farlo? La prossima volta che andiamo a teatro, soprattutto se scegliamo una tragedia greca, mi auguro coglieremo l’occasione per poterci specchiare e riuscire a capire, in quel riflesso, come poter diventare cittadini migliori.
Fonti principali:
- J. De Romilly, La tragedia greca, Bologna 1996.
- C. Meier, L’arte politica della tragedia greca, Torino 2000.
- E. Stolfi, La giustizia in scena. Diritto e potere in Eschilo e Sofocle, Bologna 2022.
- J.-P. Vernant e P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia; Torino 1976.
Letto tutto d’un fiato. È meraviglioso trovare nero su bianco, e corredato da fonti, uno dei principi saldi della mia cultura personale
Bravissima, Marianna.
Grazie mille!
Non potevo che partire da qua per il mio lavoro di tesi di laurea. Una “classicista” è per sempre!