
Eros aveva quel sorriso di chi sa sparire. Ci siamo incontrati in una città che non apparteneva né a lui né a me, ma che per qualche giorno è diventata nostra. Mi guardava negli occhi e parlava d’amore con parole che sembravano vere. Io, che avevo meno di trent’anni e ancora credevo alle favole, gli ho creduto.
Quando è tornato nel suo paese, non ci ho pensato due volte: un mese dopo ho preso un aereo per sorprenderlo. Ma la sorpresa è stata mia. Al mio arrivo, lui era già con un’altra. Nessuna spiegazione, nessuna parola. Solo quel gesto goffo e vigliacco di chi viene colto sul fatto. Mi mancavano 89 giorni in un paese del Sud America, con una valigia piena di sogni e un cuore che faceva eco,
eco,
eco.
Così ho imparato che eros non è un dio che resta. È un lampo. Una promessa sussurrata che si dissolve nell’aria. Sono tornata diversa. Con un timbro in più sul passaporto, ma con meno fiducia nelle parole.
Avevo ancora vent’anni quando è arrivato la versione maschile di Medea. Lui era quel tipo che ascoltava indie rock, cresciuto nel lusso, abituato ad avere tutto. Cercava una Barbie, e io non ero quel tipo, né volevo esserlo. Presto il suo amore è diventato controllo. Scrutava ogni mio gesto: l’ora in cui rientravo, le parole che scrivevo, il modo in cui i miei amici mi guardavano. Anche un sorriso allo schermo, un punto e virgola, un cambio di telefono…tutto diventava sospetto.
Dopo sei mesi si è trasferito da me. E io l’ho lasciato restare. Perché la paura non arriva come un urlo, arriva come una carezza che stringe piano, fino a diventare catena. E io, mi sono aggrappata a quella mania. Quando è stato lui a lasciarmi, ho lasciato andare anche l’ultima speranza di incontrare qualcuno che “mi amasse”. Qualunque cosa volesse dire, allora. Se ne è andato dicendomi che non avrei mai più trovato uno come lui. E io ho pensato: MAGARI!
Poi, in un’età indefinita che chiamerei “venti-sempre”, ho incontrato Poseidone. Il dio del mare, selvaggio e magnetico. Incarnava l’estate: arriva, travolge, e poi scompare con le prime foglie d’autunno. Era un regista, con capelli ricci e dorati come le onde al tramonto, e occhi color schiuma. Con lui ridevo, sognavo. Non prometteva nulla, non chiedeva nulla. Solo presenza. Solo il momento.
Mi parlava in immagini, ascoltava i miei sogni come se fossero poesie. Nessuna gelosia, nessun piano. Solo corpi, risate, silenzi pieni. Con lui ho capito che il ludus non costruisce case, ma apre finestre. Non mette radici, ma insegna a ballare col vento. Ma un giorno ho visto un suo film al cinema. La coincidenza più inaspettata: vedere un’attrice sullo schermo, con i capelli lunghi e neri, un ritratto ovvio con labbra rosse parlare di tutto ciò che una volta gli avevo raccontato in segreto.
Dopo la passione, il controllo, il gioco, mi sono chiesta: esiste l’amore che resta? Quello che non brucia, non soffoca, non fugge? Quello che si siede accanto a te, in silenzio, e costruisce?
Il pragma somiglia a una casa illuminata. Ma ogni volta che mi avvicinavo, qualcosa mi tratteneva: o era la porta sbagliata, o avevo ancora cenere nei capelli da incendi passati. Forse la stabilità non è noia. Forse è coraggio. Boh!
Ma ogni storia mi ha lasciato un pezzo. E con quei frammenti, anche se a volte fanno male, mi sono costruito a me stessa con la philautia. Perché se l’amore deve tornare, voglio che mi trovi intera.