Ho percorso la Grecia in lungo e in largo su due ruote. Mi ha accolta come si fa con un vecchio amico tornato senza preavviso. L’aria sapeva di timo e polvere di sole. C’era un silenzio che non pesava, ma respirava, un silenzio che ha imparato a convivere con il canto delle cicale. Le strade si arrampicavano lente, come pensieri che non vogliono finire, tra le case bianche e le porte azzurro pastello. Lì tutto sembrava antico ma non vecchio, come se il tempo avesse scelto di fermarsi per respirare meglio. Ogni muro screpolato raccontava una storia, ogni porta azzurra custodiva un segreto che nessuno aveva fretta di svelare. E tra quelle case bianche di malinconia che si scioglievano nella luce, ho riletto le pagine di un libro: UN UOMO di Oriana Fallaci che non è solo un romanzo ma una ferita che respira. Leggerlo significa entrare in una dimensione dove amore, politica e dolore si intrecciano fino a confondersi, fino a non sapere più dove finisca la Storia e dove cominci l’anima.

Oriana Fallaci, definita la donna d’acciaio, scriveva con una penna di burro e miele del suo “uomo” che per lei non è stato solo amante, ma soprattutto l’amore. Le parole di Oriana sono parole gentili, di una dolcezza singolare. Quando chiedevano a lei, sua compagna di vita, che uomo fosse davvero Panagulis, Oriana rispondeva che lui non un eroe, non un politico, o meglio, non solo questo. «Mi sembra di limitarlo – diceva – Alekos era soprattutto un poeta, un artista. Il suo eroismo era la conseguenza della sua poesia e la sua politica era la traduzione della sua arte». Quando Oriana Fallaci incontrò Alexandros Panagulis, non trovò soltanto un uomo che aveva sfidato la dittatura, ma un’anima spezzata e luminosa insieme. Le sue mani portavano i segni delle catene, il suo corpo raccontava senza bisogno di parole le stanze oscure della prigione, le torture subite, la solitudine che non era riuscita a piegarlo. In lui non c’era la retorica dell’eroe, ma la verità cruda di chi lotta e continua a farlo anche quando non ha più forze. Oriana lo guardava e vedeva oltre la ferita, oltre il dolore: riconosceva la grandezza che nasce dall’ostinazione. Lo chiamò semplicemente “un uomo”, perché era proprio in quella misura umana, imperfetta e grandiosa insieme, che stava la sua unicità. Quando Oriana incontrò Panagulis, incontrò l’uomo che aveva sfidato l’impossibile: aveva tentato di uccidere un dittatore, ed era sopravvissuto a un carcere costruito per annientare la volontà. Le celle strette di Boiati lo avevano accolto come una tomba in vita: tre metri per tre, muri umidi e silenzio. Lì aveva conosciuto la solitudine più feroce, il dialogo con sé stesso e con Dio, il confine fragile tra follia e resistenza. Panagulis non era un mito, ma un essere fragile. Non uscì da quella prigione come un eroe immacolato, ma come un uomo spezzato e intero nello stesso tempo. Il corpo segnato, le ossa piegate dalle torture, eppure lo sguardo ancora capace di sfidare.
Il loro amore nacque in quella verità senza veli. Lei vedeva la grandezza e la contraddizione, lui trovava in lei non una spettatrice ma una complice. Non era un amore facile: era fatto di scontri, di fughe, di ritorni, di silenzi taglienti. Amarlo significava accettare che apparteneva a una causa che veniva prima di tutto, e che forse lo avrebbe divorato.

Quando morì, sotto la violenza di un destino che portava ancora l’ombra della dittatura, Oriana si ritrovò sola con le sue parole. Scrivere “Un uomo” fu allora il modo di non perderlo: trasformare la loro storia in memoria, dolore e testimonianza. Il libro è insieme un atto d’amore e un processo, una confessione e un urlo.

Leggendo quelle pagine, si sente la Grecia come uno scenario dell’anima: la luce accecante, il vento secco, le carceri che odorano di muffa e di coraggio. Tutto è vivo, tutto è dolore. Eppure in mezzo a quella tragedia c’è un amore che non si arrende. Oriana trasforma la disperazione in scrittura, la perdita in memoria.

E lì tra quelle pagine si capisce che “Un uomo” è un modo per continuare ad amare qualcuno che il mondo ha già ucciso, ma che la parola può ancora far respirare.

E’ un libro che non si legge soltanto, ma si attraversa come un lutto o un ricordo che non si vuole lasciare andare. Non è un romanzo, è un battito dove ogni pagina ha il suono di un respiro trattenuto, di una parola che non riesce a uscire per intero, dove la Grecia, ruvida e assolata, intrisa di sangue e poesia, diventa un corpo, il corpo di Alekos, il corpo della libertà stessa.

“Un uomo” è il tentativo di trattenere la vita mentre scivola via, di dare un nome alla libertà e scoprire che quel nome, a volte, è semplicemente “amore”.

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