
In occasione del Giorno della Memoria del 27 gennaio 2010 ebbi l’incarico dalla Prefettura di Ragusa di raccogliere le testimonianze dei ragusani che dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 furono deportati in Germania. Testimonianze che ho raccontato durante la cerimonia della consegna delle medaglie alla presenza delle autorità e degli interessati. Tra questi c’erano due militari in Grecia, un ragusano e un modicano, e, dato il tema del mese, riporto in questa sede.
Il soldato ragusano. Io, all’8 settembre del 1943, ero a Cefalonia, l’isola di Cefalonia in Grecia. Ero nella divisione Acqui, comandata dal gen. Antonio Gandin. Eravamo circa 14.000 soldati.
Appena abbiamo sentito che l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli Alleati, i nostri cuori si sono aperti: la guerra è finita, ora possiamo tornare a casa, ci siamo visti già coi nostri cari, ritornati alle nostre vite.
Ma i tedeschi non la pensarono così, per loro la guerra continuava e ci hanno messo di fronte a queste alternative: o combattete con noi; o combattete contro di noi; o deponete le armi.
Non c’era alcun collegamento né con lo Stato Maggiore dell’esercito né con il Governo italiano e allora il gen. Gandin, si consultò con gli ufficiali, consultò la truppa e si decise di combattere contro i tedeschi. Ci andò male anche perché vennero a mancare le munizioni, dall’Italia non arrivava nulla e così il generale fu costretto ad alzare bandiera bianca e ci siamo arresi.
I tedeschi ci hanno considerato traditori, neanche prigionieri in quanto l’Italia non era in guerra contro la Germania, e hanno cominciato a fucilarci in massa, a gruppi di quaranta, cinquanta alla volta. Immaginate il nostro stato d’animo: avevamo visto vicine le nostre case, i nostri affetti, le nostre mamme e ora ci toccava morire. A venti anni.
Io ero nel gruppo pronto per la fucilazione, eravamo una cinquantina, eravamo in silenzio, muti, non avevamo la forza neanche di guardarci in faccia. Noi eravamo qua e là c’era il plotone d’esecuzione con i mitra spianati. L’ufficiale tedesco diede l’ordine di sparare e io all’improvviso mi buttai a terra, sentii gli spari e fui coperto dai corpi dei miei compagni. Poi mi nascosi per tre giorni in mezzo ad una siepe di rovi, la sera andavo da una famiglia di greci che mi davano qualcosa da mangiare e il giorno stavo in mezzo ai rovi. Poi i tedeschi decisero di non fucilare più e, assieme a tutti i superstiti, mi consegnai prigioniero.
Mi portarono sul fronte russo, a Borisov, in Bielorussia ma non a combattere, a lavorare. Era il 2 dicembre del 1943. Ci chiesero se volevamo combattere. Io ed altri rifiutammo e ci lasciarono nelle retrovie a lavorare in una polveriera. Facevano squadre di dieci persone comandate da un soldato tedesco e scaricavamo le munizioni provenienti dalle fabbriche e li caricavamo sui camion diretti al fronte. Ci rimasi fino al febbraio del 1945 quando ci fu l’avanzata dei russi e la ritirata dei tedeschi verso Danzica.
Ci davano da mangiare 300 grammi di pane, 20 grammi di burro e una brodaglia di verdure a mezzogiorno e sera. Certo era poco ma non ho sofferto molto anche perché tra i soldati tedeschi c’erano delle brave persone che, di nascosto, ci davano sempre qualcosa da mangiare. Ne incontrai però uno che era una bestia. Qualche volta aveva comandato la mia squadra. Nella gran confusione che ci fu durante la ritirata ho assistito ad una scena raccapricciante. Un soldato tedesco di nazionalità polacca disse ad un sottufficiale: «La mia casa è qua vicino, che faccio?» e il sottufficiale: «Nasconditi e tornatene a casa». Ma se ne accorse anche il soldato bestia che subito minacciò il sottufficiale e, appena questo si allontanò, uccise il polacco sotto i miei occhi. Figuratevi il mio sconcerto.
Nel fuggi fuggi, uno di Ispica mi disse: «Nascondiamoci e passiamo coi russi». Io pensai che la Russia era più lontana dall’Italia e così continuai a seguire i tedeschi. Io rientrai a Ragusa il 5 novembre del 1945 e lui invece nel maggio del 1946. Una sera, durante la ritirata, ero con uno di Modena, ci siamo persi in un bosco. Restammo disorientati. Che facciamo?! Il Modenese si mise a piangere. Io non mi persi d’animo. Staccai dei rami dagli alberi e feci una lettiera sulla neve, ci coricammo accanto, ci coprimmo con le due coperte che avevamo e passammo così la nottata. L’indomani ci unimmo agli altri, attraversammo il mare ghiacciato e arrivammo a Danzica.
Nel marzo del 1945 i tedeschi sparirono e passammo sotto i russi. Eravamo in una caserma, non si lavorava, da mangiare la solita brodaglia, andavamo in giro e ci arrangiavamo. Assieme ad uno di Mantova andai in un paesino vicino a lavorare in una fattoria. C’erano due anziani, marito e moglie e una figlia di cinque anni più vecchia di me. I figli maschi erano in guerra, uno morto e uno disperso. Sia io che il mantovano eravamo contadini e là ci trovammo bene. Ci passammo tutta l’estate. Nella fattoria c’erano le mucche, abbiamo mietuto il grano e trebbiato con una macchina che funzionava a legna. Da noi si trebbiava ancora con le cavalle. Ci hanno anche pagato.
Nel settembre 1945 si parlò di rientrare in Italia ma le ferrovie polacche pretesero il pagamento del viaggio. Pagai 90 slot e partimmo sui carri bestiame verso l’Italia.
Arrivai a casa, alla stazione di Ibla, il 5 novembre 1945. Ero partito il 3 agosto del 1942.
Sull’eccidio di Cefalonia è stato realizzato nel 2005 il film “Cefalonia” con regia di Riccardo Milani e protagonista Luca Zingaretti.
Il soldato modicano. Partii militare il 28 maggio 1941. Nell’aviazione. Mi portarono a Desenzano. Poi nel settembre del 1941 a Durazzo, in Albania e, il 15 gennaio 1942 ad Atene, in Grecia. Facevo servizio al comando dell’aereonautica, alla mensa dei piloti e degli ufficiali. Stavo bene. Il lavoro era semplice e leggero: pulire in cucina e i locali della mensa e aiutare i cuochi a preparare i pasti. Io ero bracciante agricolo, figlio di bracciante, nipote di bracciante e nella nostra famiglia si era sempre lavorato duro e mangiato fave stasera, fave domani sera e fave il giorno appresso. Ora mangiavo lo stesso vitto dei piloti. Mai avevo mangiato così bene in vita mia. Ci davano la libera uscita, eravamo giovani e ce ne andavamo in giro per la città. Mai ero stato così bene in vita mia. La guerra che per tutti era terribile assai, per me era una vacanza.
L’8 settembre 1943 firmarono l’armistizio. E che vuol dire? Vuol dire che la guerra è finita e ora torniamo a casa. A casa, e chi ci porta a casa? Come ci hanno portato qua ora ci riportano a casa. Ma quale casa, vennero i tedeschi e ci hanno chiuso nel comando: di qua non uscite. Dopo due giorni ci hanno mandato in Germania, a Berlino. Sei giorni di viaggio, sui carri bestiame. Non eravamo tanto scomodi, potevamo sdraiarci per dormire. Nei sei giorni di viaggio non ci hanno dato nulla da mangiare. Per fortuna ci eravamo portato delle cose.
A Berlino eravamo in una caserma dentro delle baracche. Nella mia eravamo in dieci tutti italiani. Avevamo letti normali, non cuccette. La sera ci chiudevano e la mattina ci aprivano, ci davano il tè e ci portavano in fabbrica a lavorare. Tutti i giorni, anche la domenica. Era una fabbrica di armi. Noi eravamo nei magazzini e scaricavamo e caricavamo i pezzi: artiglieria, mitraglie e altro. Da mangiare ci davano un kg di pane il martedì e il venerdì e poi brodaglia di ortaggi mezzogiorno e sera. Gli operai mangiavano alla loro mensa. Noi raccoglievamo i loro rifiuti, bucce di patate e altro, li portavamo nella baracca, li lavavamo e li cucinavamo. Avevamo una stufa a carbone. Eravamo tutti italiani, ci confortavamo a vicenda. Non ci facevano scrivere a casa. C’era un ragusano, che anni dopo ho incontrato. Ero in prefettura per sbrigare una pratica e lui passava, mi ha riconosciuto, si è avvicinato, ci siamo abbracciati come fratelli.
Nel maggio del 1945 arrivarono i russi e a ottobre sono rientrato a Modica.
Più di quattro anni lontano da casa, dalla mia famiglia, senza notizie, senza dare notizie.