
C’è un paradosso che ho imparato viaggiando in India: la distruzione non è necessariamente una fine, ma un passaggio; non un muro che chiude, ma una porta che apre. Questa consapevolezza l’ho acquisita non solo leggendo testi sacri o filosofici, ma osservando la mentalità e il modo di vivere delle persone. In India, l’idea che ogni fine porti con sé un inizio è presente ovunque: nei templi, nei mercati affollati, persino nei sorrisi delle persone che ti offrono un chai bollente nel caos folle di una torrida Mumbai.
Il simbolo per eccellenza di questa visione è Shiva, il dio che danza la distruzione per permettere la rinascita. Non è un distruttore cieco, ma un architetto cosmico: Shiva frantuma affinché da quei frammenti possa sorgere un ordine nuovo, più vitale. È un’idea potente, che rovescia la nostra paura della fine e ci invita ad accoglierla come condizione per la trasformazione. In fondo, come potremmo ricostruire senza prima abbattere i muri che ci imprigionano? A volte basta pensare a quante volte nella vita abbiamo dovuto resettare tutto: il computer impallato, un’amicizia tossica o persino l’armadio prima del cambio di stagione.
Curiosamente, anche in Occidente troviamo echi simili. Hegel, con il suo pensiero dialettico, ci ricorda che ogni “tesi” porta in sé la sua “antitesi”, e che solo dallo scontro nasce la “sintesi”, una forma più alta di conoscenza o di realtà. Distruggere, per lui, non è un fallimento, ma il motore del progresso. Certo, Hegel non aveva i tamburi e le ghirlande delle processioni indiane, ma la logica è sorprendentemente affine. In fondo, anche quando rompi un piatto preferito, la sintesi può essere una nuova scusa per andare all’Ikea.
Non tutti, però, hanno visto la distruzione in chiave positiva. Kafka, per esempio, sembra raccontare spesso di fratture senza ricostruzione, di labirinti senza uscita. Nei suoi testi ciò che si rompe non si ricompone: la distruzione è definitiva e, a volte, assurda, come il castello irraggiungibile o il processo infinito. È un avvertimento prezioso: il rischio esiste, e non sempre dalle macerie nasce qualcosa di bello e di nuovo. In fondo, se Hegel vedeva la distruzione come motore della sua macchina dialettica, Kafka avrebbe ribattuto che al suo motore mancavano sia i pezzi da assemblare che le istruzioni per il montaggio.
Eppure, tornando al mio viaggio in India, ho percepito che lì la gente vive con un pragmatismo sorprendente. Quando qualcosa si rompe – che sia una strada, una casa o persino un progetto – non lo si vive come tragedia irreparabile, ma come occasione per reinventarsi. Forse è questa la vera saggezza di Shiva: insegnare a non temere le crepe ma ad abitarle, perché è da lì che entra la luce. (E sì, lo so, questa frase sembra rubata a Leonard Cohen, ma se anche Shiva fosse stato un cantante folk, probabilmente avrebbe scritto lo stesso verso).
Distruggere, quindi, non significa annientare, ma fare spazio. È un gesto radicale che richiede coraggio, perché implica rinunciare a ciò che conosciamo. Ma è anche un atto di fiducia: la certezza che tra le macerie ci sia già il seme di qualcosa di nuovo.
Forse, allora, la prossima volta che ci capita di vedere crollare una certezza, dovremmo smettere di ragionare come Kafka e provare a pensare come Shiva (o come Hegel, se preferiamo un approccio più occidentale). Certo, il rischio è che finiamo comunque come Josef K., inghiottiti in un processo interminabile e senza senso, dove ogni tentativo di rinascita è vanificato, ma almeno potremo dire di aver ballato un po’ prima di andare incontro alla distruzione – o, nella versione più quotidiana, potremo dire che abbiamo ballato mentre cancellavamo vecchi file dal computer, liberando spazio per qualcosa di nuovo.