
Bocconi in riva al mare, si spalmava addosso crema solare rubata a un tramonto violaceo, l’estate dei 18 anni.
Io, mio fratello e gli amici sonnecchiavamo su progetti riciclati da qualche telefilm, i gomiti piantati in uno spicchio di sabbia difeso a denti stretti nella ressa degli ombrelloni, a Kaukana.
Lo spettro da spiaggia arrivò alla velocità dei quanti. Era forse lontano parente di uno di quegli jiin che terrorizza i musulmani, sollevando mulinelli maligni su più vaste distese di sabbia. Io non gli interessavo affatto e non voleva farmi del male, ma mi usò per un suo esperimento o apprendistato che ancora oggi ricordo.
Non crediate che sapessi riconoscerlo. Uno spettro io non l’avevo mai visto prima, figuriamoci da spiaggia. Poteva essere chiunque. La signora siguardamanonsitocca in bikini, pareo e piedi nudi sul bagnasciuga o il bambino straniero nudo che miagola: “Maaaaamy”. Uno degli anziani bocciofili che si accaniscono per tre quarti d’ora accanto al punto sempre troppo vicino al telo mare della bionda miss Kaukana o lo scarafaggio che caracolla col suo telaio nero dune buggy schivando bombe a grappolo di Supertele. Vallo a sapere.
E poi io ero distratto, lo confesso. Concentrato nel gioco di sabbia di un papà con il suo bimbo che prese presto una piega architettonica. I due urbanizzavano i loro centimetri quadrati di spiaggia per fondare la loro Marina di Qualcosa. Prima una cittadella di ciuffi d’alghe, cannucce periscopiche, mozziconi di Marlboro, conchiglie e vetri smussati. A seguire, ovvio come una speculazione edilizia, il castello di sabbia.
— Per prima cosa costruiamo il fossato. Tu vai a prendere l’acqua di mare. Se c’è qualche pesce, meglio!
E mentre la piccola staffetta seminava dal secchiello tracce del suo andirivieni, con sapienti tocchi di mano l’uomo aveva già sollevato la sabbia dietro la trincea che si inondava a colpi di maree in miniatura.
— Qua le mura, con i cannoni! E all’incrocio una torre!
Fu quando il minuto previsto per la fine lavori era già stato fissato che lo spettro da spiaggia si annunciò con un risucchio del Tempo. Non il tempo qualunque degli orologi al quarzo che a quel tempo tutti portavamo al polso, ma il Tempo fabbro e custode, quello in cui scorrono le cose.
L’uomo adulto chiese al bambino:
— Abbiamo costruito il castello. E ora cosa facciamo?
Il risucchio acquistò una forza maggiore, capace di trascinarmi in un gorgo.
Lo spettro da spiaggia sollevò dal pentolone ribollente delle cose del mondo un mestolo di legno con un bocconcino di realtà.
— Tie’ assaggia!
—E ora cosa facciamo? ha appena chiesto l’uomo al suo bambino.
E io lo vidi prima di tutti, sullo schermo dei miei occhi socchiusi: il bambino piantò con furore il suo piede cinquenne sul castello al grido:
— Lo distruggiamo!
Passò un fotone di Tempo. E la scena si ripeté identica, ma stavolta davanti a tutti. Piede, castello, grido.
— Lo distruggiamo!
Una realtà che concede il bis, capite? Non capita spesso, anzi non dovrebbe capitare mai.
L’indistruttibile trama che conteneva quel momento si era rotta a una parola d’ordine fin troppo scontata. Lo spettro mi aveva socchiuso la porta di una dimensione parallela (ha un nome, lo garantisco, di un fisico tedesco che non vi sto a citare).
Per il tempo di uno sfarfallio ero fuori dalla trappola. Non più alla periferia dell’universo, ma in cabina di comando accanto al primo ufficiale.
Di quella chiaroveggenza di un attimo si accorse solo mio fratello a cui spiegai quell’intermittenza, sottovoce. Se ne sarebbe ricordato per scrivere un suo editoriale, molti anni dopo. Io invece ho avuto il privilegio di dare una furtiva occhiata all’officina del mondo e all’imprecisione di un dio. Per un tempo minuscolo un castello di sabbia fu distrutto due volte, dallo stesso piede di bambino.
Non ho mai più incontrato lo spettro da spiaggia.
E l’estate e l’intera mia vita proseguirono poi sempre in perfetto sincrono.