Inizia e finisce sempre allo stesso modo. Con un uomo che racconta, con una città che brucia, con un tempo che non scorre ma si ripete. “Mattatoio n. 5” non è solo un romanzo, è un nodo alla gola, un grido soffocato che rimbalza tra passato e futuro, un inno spezzato contro ogni guerra — tutte le guerre — anche quelle che credevamo giuste.

Billy Pilgrim, il protagonista, o forse solo il doppio trasparente dell’autore Kurt Vonnegut, non è un eroe. Non combatte davvero, non vince nulla, non salva nessuno. È un uomo spinto dagli eventi, trascinato dal tempo, sballottato da guerre che non ha scelto. Ma forse, proprio per questo, è l’unico personaggio che dice la verità. Perché l’ha vista, la guerra, da dentro, da sotto, dal mattatoio di Dresda, quando quella città tedesca venne rasa al suolo da un bombardamento “giustificato” con la necessità di accelerare la fine del conflitto.

Dresda. 13 febbraio 1945. 135.000 morti civili, ridotti in cenere. Nessun grande monumento, nessuna commemorazione universale, nessuna memoria collettiva. Solo la cenere. In confronto, Hiroshima e Nagasaki – simboli eterni della distruzione atomica – fecero insieme meno vittime dirette. Eppure, chi parla di Dresda? Chi si ferma a riflettere su quei corpi dimenticati? Chi si interroga su cosa significhi radere al suolo una città abitata da rifugiati, donne, bambini? E perché continuiamo a credere che “da una parte” ci sia il bene e “dall’altra” il male?

La guerra è una follia impersonale, e Vonnegut lo racconta con un’ironia che lacera. Una comicità nera, paradossale, che fa affiorare il grottesco dell’orrore. Come se ridere fosse l’unico modo per sopravvivere a ciò che non si può spiegare, né giustificare. Un soldato americano fatto prigioniero dai tedeschi, salvato quasi per sbaglio, che finisce a Dresda proprio prima del disastro. Un alieno del pianeta Tralfamadore che lo rapisce per esporlo in uno zoo galattico. Una narrazione che salta avanti e indietro nel tempo come se il tempo stesso avesse perso significato. Perché forse lo ha perso davvero.

Così va la vita”, ripete il libro. Dopo ogni morte, dopo ogni distruzione, dopo ogni assurdità c’è sempre una frase che non consola, non spiega, non risolve. Perché l’orrore, una volta visto, non può essere rimosso. E forse è proprio questo il senso di un’opera come Mattatoio n. 5: non dimenticare mai quanto possa essere insopportabilmente ridicola la crudeltà umana.

La lettura di Mattatoio n.5 ti lascia l’imbarazzante disagio, quasi la vergogna di aver pensato anche solo una volta nella vita che possono esistere guerre più giuste di altre e per una buona causa. Vonnegut era lì. Ha visto il fuoco, la carne, il silenzio dei morti. E ce lo racconta senza retorica, senza enfasi, quasi con rassegnazione. Come a dire: guardate cosa abbiamo fatto, guardate cosa continuiamo a fare. E infatti, ancora oggi, nel 2025, le guerre non sono finite. Semplicemente cambia continuamente scenario. Altre città vengono spazzate via, altri paesi vengono occupati nell’indifferenza, altri bambini muoiono, altri politici dicono di agire “per la pace”. E noi? Noi leggiamo, magari ci indigniamo per un momento, e poi giriamo pagina.

Cominciò a perdere la nozione del tempo, vide il film della notte dalla fine…gli aerei americani, pieni di fori e di feriti e di cadaveri decollavano all’indietro da un campo d’aviazione in Inghilterra. Quando furono sopra la Francia, alcuni caccia tedeschi li raggiunsero, sempre volando all’indietro, e succhiarono proiettili e schegge da alcuni degli aerei e degli aviatori. Fecero lo stesso con alcuni bombardieri americani distrutti, che erano a terra e poi decollarono all’indietro, per unirsi alla formazione

Forse Mattatoio n. 5 non ci salverà, ma ci obbliga a guardare negli occhi la verità: non esistono guerre buone, né bombe intelligenti. Esistono solo uomini che muoiono, altri che decidono, e troppi che dimenticano.

Tutte le guerre sono combattute dalla più bella gente che c’è, o diciamo pure soltanto dalla gente, per quanto, quanto più ci si avvicina a dove si combatte e tanto più bella è la gente che si incontra; ma sono fatte, provocate e iniziate da precise rivalità economiche e da maiali che sorgono a profittarne”. (Ernest Hemingway 30 giugno 1948)

Non abbiamo imparato nulla, e forse mai impareremo.

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