In una società dominata dalle macchine, dove l’umano sbiadisce nel virtuale e l’intelligenza diventa artificiale, i passi sono una forma di resistenza, quello che ci rimane della nostra nascita come homo erectus nel Paleolitico, milioni di anni fa. Quando l’ominide ha lasciato i quattro appoggi per ergersi su due gambe e guardare l’orizzonte.
Da allora ne abbiamo fatta di strada, di passi appunto. Fino a inventare macchine che sono, lo ha detto per primo il sociologo canadese Marshall McLuhan, estensioni del nostro corpo. Le automobili sono estensioni delle nostre gambe. Filano veloci a migliaia di metri all’ora. I media elettronici sono estensioni del sistema nervoso centrale. Un computer con un processore da 3,5 gigahertz esegue 3,5 miliardi di istruzioni in un secondo. Io sono solo un uomo. Uno.
Allora amo i lenti passi, la misura umana del mondo. Se il mio passo è lungo settanta centimetri, la circonferenza del pianeta terra è eguale a 57 milioni 250.00 dei miei passi. François Truffaut faceva dire a Charles Denner, l’uomo che amava le donne: “Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre in tutte le direzioni, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia”. Una donna potrebbe dire la stessa cosa dei passi di un maschio.
Fino a poco tempo fa le unità di misura corrispondevano a qualcosa di tangibile. In Sicilia per la lunghezza si usavano la canna e il palmo. Cinesi e anglosassoni erano accomunati dall’usare il pollice e il piede. Gli inglesi, inguaribili tradizionalisti, li usano ancora. Il mondo veniva misurato con la lunghezza di parti del corpo umano, perché era l’uomo il centro del mondo. Per intenderci, l’uomo vitruviano raffigurato da Leonardo Da Vinci a braccia aperte, iscritto in un quadrato e in un cerchio.
Camminare a piedi afferma la propria umana natura in un mondo sempre più innaturale, in una società che ci tiene alla periferia degli avvenimenti, ci fa sentire estranei e inutili, puntini di un enorme massa che non influisce più sui destini del mondo. Almeno è questo ciò che sentiamo.
Qualcuno pensa ancora che l’automobile sia uno status symbol di ricchezza. In effetti, una bella coda nel traffico è affermazione paradossale di democrazia: livella tutti, utilitarie e berline di lusso. Ma che sofferenza! Niente è più prezioso del vagare a piedi liberi e senza fretta per le strade di una città sconosciuta. Attività di flâneur, parola di Baudelaire. Perché il vero lusso è il tempo, che fugge veloce e che la lentezza dei passi rallenta.
Obiezione, non sempre il sole ti sorride. In certi giorni, esistono passi che il mare dei pensieri ha consumato. (Paoli mi scuserà). Quando sembra che ogni passo che facciamo è stato percorso mille volte. Allora tutto va in rovina, non solo le suole delle scarpe. L’attrito, l’usura, la dissipazione. Il tempo fugge, perdiamo il gusto di passeggiare senza scopo, ci interroghiamo ansiosi: dove andiamo, da chi e da cosa fuggiamo? Quale direzione scegliere del cammino? Un morso alla mela dell’albero dello stare e dell’andare e ogni certezza è persa. Il paradiso è il mondo della certezza, la certezza non è umana. Siamo in bilico nel vuoto, camminiamo sopra l’abisso, un passo dopo l’altro, in equilibrio precario.
Eppure, passo dopo passo si attraversa il burrone, si ritrova la terra ferma. In effetti che sia ferma è relativo a se stessa: si muove nello spazio attorno al sole. E il sistema solare si muove nella via Lattea e la via Lattea si muove nell’universo e l’universo si muove come l’espandersi di un respiro. La vita è movimento, l’eternità è una infinita serie di passi.
Non resta che resistere, dare un senso a ogni nostro passo, rendere luminoso il nostro passaggio. Tentarci, almeno.

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