I passi dal marciapiede opposto alla saracinesca alzata a metà erano pochi. Una decina, in media. Sarà che ho sempre avuto la camminata veloce… ma una decina. Non sotto i nove, ok. Ma a dodici non ci si arrivava davvero. Un po’ come quando al liceo, in matematica, studiavi quelle operazioni con l’intervallo. In casi come questo avresti dovuto scrivere “9 ≤ x ≤ 11”. Se mi avessero detto, durante l’adolescenza, che quella formula avrebbe descritto un aspetto della mia vita non ci avrei mai creduto. E pensi che è vero quando ti dicono che la cultura non serve. Nel senso che non si fa asservire. È un insieme di mattoncini che costruisce ciò che sei. E in ciò che ero, c’era anche quel momento fatto di dieci passi. Dieci passi che mi separavano da ciò che ero stato fino a quel momento a ciò che sarei diventato dopo.

Voci poco gentili

Va da sé: descrivere chi ero, prima di quel momento, sarebbe impresa impegnativa e anche un po’ egotica. Dico, le autobiografie solo se hai provato a cambiare il mondo da una posizione di privilegio assoluto. Non è il mio caso, insomma. Anche se vivo le mie fette di privilegio e anche se ci provo a cambiare il mondo. Ma se dovessi usare alcune parole chiave, tra le prime che mi vengono in mente – in quello che è, se non ve ne foste ancora accortə, un flusso di coscienza – c’è “voci”. Nel senso che per un po’, nella mia adolescenza, le ho sentite. Le voci, dico. Di due tipi: quelle fuori di me e quelle dentro di me. Le prime non erano gentili, per niente. Perché tutto il mondo, là fuori, ci teneva a farmi sapere quanto gli facessi schifo. E allora gli accostamenti a ben famosi ortaggi, l’assimilazione al siciliano puppu (polpo) – che significa “omosessuale”, ma senza nessuna concessione all’ironia o alla mera descrizione – e altre amenità erano per me vita ordinaria. Poi c’erano le altre, quelle che si agitavano dentro. E no, non erano gentili nemmeno in quest’ultimo caso.

Il ponticello

Un giorno ero in camera mia. Mia madre era di là, credo in cucina. Mio padre in camera da letto, a leggere. Stavo al computer e scrivevo. Passavo tanto tempo a scrivere. Poesie, romanzi, roba illeggibile. La mia stanza stava al quinto piano di un palazzo, al di sotto del quale c’era un cortile interno con un ponticello che univa i due plessi del condominio. Al di sotto, un tunnel scavato nella roccia che conduceva ai garage. A un certo punto le voci. Dal ponticello. Che urlavano, cantilenando: «Dario è frocio, Dario è frocio».

Schegge sotto pelle

Ora, immaginate la mia situazione. Affrontare i bulli, che erano venuti a dedicarmi la loro serenata omofoba sotto il balcone, o le domande dei miei che mi avrebbero chiesto come mai quella gente mi insultasse? A quale mondo dovevo rinunciare? Quello in cui, in un certo qual modo potevo stare al sicuro, o il mondo là fuori che mi sarebbe stato precluso per sempre se avessi reagito? Alla fine scelsi la cosa più sicura: feci i miei passi – meno di dieci, a questo giro – verso il finestrone, aprii e quando mi affacciai per urlar loro di smettere le voci svanirono. Non c’era nessuno sul ponticello. Le voci stavano tutte dentro la mia testa. Non poteva essere altrimenti, visto che per anni gli altri avevano fatto di tutto per conficcarcele dentro. Come schegge sotto pelle.

La parola più forte di tutte

Fu lì che accadde l’inevitabile. Guardai giù, dal quinto piano. “Un solo passo” dissi tra me e me, “e questa merda finisce”. Un saltino, nulla di più. Certo, ossa rotte e forse sangue. Tanto sangue. Tutto sarebbe dipeso dall’atterraggio. Ma poi, finalmente, il silenzio. Il silenzio sulle voci, sul bullismo, sull’omofobia che erano state la forma principale di relazione sociale quando ero stato adolescente. Sarebbe bastato solo un passo verso il vuoto. Poi però, sempre da dentro, una voce si fece ancora più forte, sovrastando tutte le altre.

«No!»

No, non era quello il mio destino. È come se quella voce, che poi era la mia, mi riconducesse alla ragione e sovrastasse tutte le altre. Anzi, di più: come se mi riconducesse alla vita. Come potrete immaginare, altrimenti non sarei qui a raccontarvelo, quello fu un passo che fortunatamente non feci. E imparai il valore della parola più forte di tutte, in quel momento della mia vita. Una parola che dava un segno opposto a tutte le narrazioni che erano state fatte di me fino a quel momento. Credo che fu lì che cominciai a reagire. Pian piano, un passo alla volta.

Via Gargano 33

Poi le cose sono andate come sono andate. I primi coming out con le amiche, qualche amore sbagliato, i primi passi tutti goffi e imperfetti. Fino a quando, quel giorno del 13 gennaio del 1998, andai in via Gargano al numero 33, a Catania. Lì c’era la sede di Open Mind, forse l’unica associazione Lgbtqia+ della città all’epoca. Inutile dire che mica andai e entrai subito. Ci volle un’oretta, prima di suonare al citofono. Vai e vieni, avanti e indietro. Non era semplice paura. Puoi aver paura di fare le montagne russe, ma alla fine le fai. O di saltare dallo scivolo dell’aquapark. E anche lì, ti butti. Non fu paura, in quel caso. Era una cosa più tipo Matrix. Pillola rossa o pillola blu. E benvenutə nella tana del Bianconiglio. Nulla sarebbe stato più come prima. Anche perché, dopo anni di insulti, quel “frocio” l’avrei scritto io su una spilletta esistenziale e me lo sarei appuntato al petto con orgoglio. E in effetti, così è stato. Quindi feci quei dieci passi. Non più di undici, dai. Verso l’arcobaleno. Suonai il campanello e il resto è ciò che sono stato negli ultimi ventisette – quasi ventotto – anni.

In direzione opposta

Se scrivo tutto questo c’è una ragione. In questi giorni, ai piani alti, chi vive in una posizione di privilegio assoluto e potrebbe cambiare il mondo ha deciso che non si potrà fare educazione sessuale e affettiva a scuola. La stessa che sarebbe servita ai miei tempi per evitare che quelle voci di chi ho parlato si conficcassero tra i pensieri. E che certi pensieri suggerissero di fare un passo definitivo. Certo io sono stato sia fortunato, sia forte. Ma forza e fortuna sono accidenti, non virtù. E il coraggio è un’arte che impari giorno per giorno, non certo un dovere. E in questi anni, molti ragazzi non hanno avuto la forza e il passo nel vuoto, nell’abisso, l’hanno compiuto. E oggi non ci sono più.

Chi sta in alto, a parer mio, dovrebbe fare in modo di costruire un tempo di qualità, che sia anche quanto più lungo possibile. Non sono tempi di lungimiranza, evidentemente. E sto di nuovo divagando. Ma vorrà dire che faremo dei passi in direzione opposta. E che verranno pronunciati altri “no” rispetto a una narrazione che si sta tentando di imporre nelle nostre scuole e nelle vite di migliaia di adolescenti.

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