
«Scardinante» fu l’attributo cui ricorse la Giuria dei Letterati dell’edizione 2020 del Premio Campiello, per accogliere Con passi giapponesi (Einaudi, 2019) nella cinquina dei finalisti insieme al nome di Patrizia Cavalli (1947-2022), autrice delle più note raccolte di poesia italiana del Novecento.
In quell’anno straordinario – come dimenticare l’emergenza pandemica, l’ombra dei secoli medievali sulla fine del mondo, la tragedia delle morti, l’obbligo del distanziamento sociale, le ricadute economiche ed emotive sulla quotidianità umana – anche la straordinarietà dell’opera presentata era indubbiamente di evidente portata, e tuttora basta scorrere l’indice dei sedici testi della raccolta o lasciarsi catturare dal primo che le dà il titolo, per entrare nel raffinato universo linguistico di Cavalli, nel paesaggio sentimentale dell’imperfezione inseguita dal suo sguardo.
«Mi manca la Musa, mi manca l’amore. Non m’innamoro più, sono inerme e passiva. Da quando non c’è la Musa, io non riesco più a fare poesie» – avrebbe detto all’amica giornalista Leonetta Bentivoglio, per giustificare la scelta di pubblicare nel 2019 quell’antologia di prose, inconsueta eccezione letteraria nella sua produzione in soli versi.
Poeta, e non poetessa, amava dire infatti di sé, così come l’aveva incoronata Elsa Morante, secondo l’aneddoto ripetuto nelle interviste e nel più recente documentario Le mie poesie non salveranno il mondo di Francesco Piccolo e Annalena Benini (2023). Entrata a far parte delle nuove amicizie romane, dopo avere conosciuto la scrittrice, ne era stata più volte sollecitata a mostrarle i propri versi, temendone il più spietato giudizio e la perdita di stima e amicizia. «Nella mia giovinezza a Todi leggevo Elsa Morante …e la ammiravo immensamente. Leggendo i suoi libri, vedevo in lei un genere di sguardo che avrei voluto si posasse su di me. Avrei voluto essere guardata come lei guardava i suoi personaggi» – racconta a Scrittori per un anno (2021), a proposito del loro incontro. «Da bambina ho sempre scritto, …mai mi sarei sognata di dirle che scrivevo, perché avevo visto varie volte i suoi furori … e avevo visto il terrore che venisse meno questo stato di grazia». Così, quando la scrittrice le dice di volere leggere le sue poesie, «non perché mi interessino per motivi letterari, ma per vedere come sei fatta», la giovanissima Cavalli vacilla, si rimette all’opera per raccogliere i componimenti, produrne altri e consegnarli in visione, temendo il verdetto. «Ho fatto un gruppetto di poesie piccole, pensando ci fosse meno rischio, …gliel’ho portato e dopo mezz’ora mi ha telefonato e mi ha detto questa frase, la sanno tutti, perché la racconto: “Sono felice, Patrizia, Sei un poeta”. E io ho fatto un sospiro di sollievo (…). Oramai non correvo più rischi, avevo un titolo e quindi di questo titolo mi vantavo e mi sentivo bene al sicuro dentro quel grembo». Di lì a breve le avrebbe pubblicate nella raccolta Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974).

E davvero sin da bambina, Cavalli aveva trovato nella poesia il proprio naturale linguaggio sentimentale, tanto da dedicare le prime rime a Kim Novak, respirandone il fascino cinematografico, la bellezza quale complemento essenziale del mito e della natura celeste dell’oggetto d’amore, secondo un’ascendenza remota e viva, appresa dalla poesia di Saffo e Petrarca. E anche se la sua è la lingua dell’uso, condivisa dai parlanti, l’esercizio di raffinatezza consiste nella ricerca dell’esattezza, nella scelta di un lessico leale alla rappresentazione iconografica, prediligendo l’allitterazione e la rima, la sonorità dell’assortimento verbale anziché la metafora.

In questo senso, la poesia di Patrizia Cavalli – da Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), Il cielo (1981), Poesie 1974-1992 (1992), L’io singolare proprio mio (1999), Sempre aperto teatro (1999), Pigre divinità e pigra sorte (2006), Datura (2013), fino a Vita meravigliosa (2020) – con geniale accuratezza e apparente semplicità, contiene l’essenziale nel recinto semantico e metrico delle parole, sciogliendo la tensione in musicalità. Del resto, è una sperimentazione espressiva che Cavalli riversa allo stesso modo nelle traduzioni teatrali, che lei stessa definiva forme di «ginnastica verbale», lavorando a La tempesta, Sogno di una notte d’estate, Otello, La dodicesima notte di Shakespeare e all’Anfitrione di Moliere.

Anche quando un vocabolo si ripete a fitta distanza, è l’effetto stilistico a impegnare l’intenzione poetica, quasi inseguendo un ritornello canoro (nel 2012, Cavalli realizzò i testi di Al cuore fa bene far le scale, su musica di Diana Tejera) e il ritmo anaforico delle laude di Jacopone da Todi, come ha osservato Leonetta Bentivoglio, ricordandone la città natale e la sensibilità alle contaminazioni culturali, sebbene la stessa Cavalli parlasse di sé come di una bad girl, fuori dagli schemi, capace di giocare a morra con i camionisti, libera dalle convenzioni familiari e sociali, stretta dall’urgenza di fuggire dalla provincia per respirare la vitalità pulsante della Città Eterna.

Alla luce di tale ricchezza concettuale, la rivelazione delle prose – parallele nel tempo alle poesie, e in parte successive solo nella pubblicazione – è dunque “scardinante” come un disinganno.
Vano sarebbe, infatti, il tentativo di rintracciare delle atmosfere orientali, magari «una signora anziana in un ricco chimono viola pallido, circondata da familiari giovani, uomini e donne, in atteggiamento rispettoso e premuroso», come quella in cui si imbatte Italo Calvino in Giappone nel 1976, mentre aspetta il treno da Tokyo a Kyoto, apprezzando il valore di un ambiente pubblico «senza spazio per il disordine», in cui il costume locale investe a prima vista il visitatore occidentale. «Basterebbe che mi fermassi un po’ in Giappone e certo anche per me diventerebbe un fatto normale … che molte signore, soprattutto anziane, portino il chimono col fastoso fiocco sulla schiena … e procedano coi piccoli passi trotterellanti dei piedi biancocalzati».
In Cavalli, invece i passi giapponesi sono quelli di una donna sarda, la protagonista del primo racconto, un originale prototipo femminile, tragicomico nella sua contraddittorietà, raffigurata nel tentativo di nascondere la cadenza isolana per sfuggire al giudizio dei residenti romani sui provinciali. «In quel racconto non era assolutamente mia intenzione descrivere il dialetto sardo, per cui ho molta simpatia» – spiegava Cavalli – «Mi interessava piuttosto un certo effetto comico provocato dalla frizione tra il dialetto e il desiderio di reprimerlo: l’ambizione di incivilirsi, da parte della protagonista, che tentava in ogni modo di nascondere con imbarazzo ogni traccia sonora della sua provenienza».
Ma per la donna non si tratta dell’unica riserva. Per passare in ritirata, quando tra i banchi del mercato o in strada certi discorsi non si allineano all’abitudine di compiacere la conversazione, adotta quel modo tutto suo di defilarsi con passi giapponesi. Allo stesso modo, un’onda di severità la investe nell’affrontare le imperfezioni del proprio aspetto, temendo il giudizio delle altre donne, inclini a osservare i segni della natura e del tempo, sebben mai quanto lei. È una singolare invidia ad abitarne lo sguardo, capace di posarsi sui dettagli di un corpo, scoprirne l’età esatta e compatirlo o condannarlo, in cui l’autrice evoca quello della madre allo specchio, quando sul punto di uscire di casa vagliava il proprio aspetto con la crudele ferocia di un’estranea. Quei passi giapponesi, che altrove consentono al personaggio di lasciare la scena senza danni, non valgono per sfuggire a sé stessa e occorreranno altre speculazioni tragicomiche per sopravvivere alla vedovanza dell’estetica.
Il medesimo registro, altalenante tra farsa e dramma, si incontra nei testi successivi, nei quali appaiono tutti i temi già ricorrenti nelle poesie, a partire dall’esperienza del mondo, della vita, dell’amicizia e soprattutto dell’amore, che assume la consistenza di energia vitale, profonda e ctonia (Arrivederci anzi addio), come nella versione epigrammatica delle poesie, con il dolore per la solitudine presto dissolto dalla vastità del ricco universo vitale che la contiene.
Tra le infrastrutture sentimentali su cui insiste l’agenda dei giorni, si susseguono l’affezione per gli oggetti dei quali Cavalli rivendica gelosamente l’appartenenza, quasi con un sottile animismo che ne giustifica l’essere in vita e in dialogo con lei stessa (La casa, Scarpe da ballo, Opera incerta); il ricordo di Elsa Morante (Gattare) e la comune passione per i randagi, testimoniata dal ricordo commosso di Sandra Petrignani per la sua scomparsa nel 2022, e per Ginger dagli occhi chiari come i suoi, il gattino di strada che le aveva lasciato da tenere.
Ci sono gli affreschi del passato: da un lato, l’amore per la madre in un’immagine deformata (Ricordi di infanzia e di adolescenza), combattuto tra l’affezione, il desiderio di libertà, l’incapacità di perdonarle la rinuncia alla bellezza dopo l’isterectomia, all’amore per sé e per la figlia; dall’altro, la nonna (La strada nuova), in una memorabile passeggiata in auto – lungo le Gole del Forello in Umbria, con la giovane Patrizia alla guida – che anticipa quell’insistenza sulle strade sconnesse e su certa impraticabilità viaria, di cui l’autrice accusa il tracciato urbano, talvolta maleodorante, di Roma. La tutela dell’olfatto – e anche la salvaguardia dell’udito dalle molestie – è un suo divertito interesse particolare, tanto da mettere in agenda il progetto di comprare la fabbrica dell’arbre magique e distruggerla (Varietà).
Ci sono capolavori istrionici di superba ironia, come monologhi da lettura teatrale, nei quali Cavalli fantastica lo sviluppo surreale di una vicenda paradossale e immaginaria, traendo spunto da una circostanza casuale, per lei più o meno fortunata.
Così è per il ritrovamento di una colonna romana in un cantiere stradale a ridosso di Campo de’ Fiori (La colonna di porfido), che medita di fare sua nottetempo, con il favore di tre traslocatori che falliscono nell’impresa e reclamano di essere pagati, restandone priva come «un’innamorata casta».
Così è per il divertissement costruito intorno alla condanna dell’emicrania (Il mal di testa), temibile ospite capace di sovvertire l’ordine costituito della quotidianità o di allestirne altri, assortiti dall’immaginazione.
Così è per l’immeritata invidia per i viaggiatori dal bagaglio esiguo (Fare bagagli), rei confessi di non lasciare altro spazio all’immaginazione, alla possibilità di concedersi di scegliere, alla condanna a partire e tornare leggeri, quasi l’esperienza del viaggio non abbia consegnato una testimonianza concreta del loro essere stati, a differenza di quanti ripongono in valigia ogni aspettativa, apprezzabili come i sognatori di giorno, «che sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte», secondo Edgar Allan Poe.
E così è ancora per la notizia dell’imminente ricchezza (I soldi), per cui Cavalli prevede liberalità diffuse tra gli amici – distinguendo tra i privilegiati già ospiti della convivialità alla sua tavola, da orgogliosa artefice e abilissima cuoca, nell’affettuoso ricordo della scrittrice Chiara Valerio – e acquisti più o meno necessari, come una casa più grande per le cene da sedici e diciotto invitati e una seconda casa per cucinare il fritto, per non doverne sopportare l’odore. Né si può dimenticare il sarcasmo sulle abitudini della romanità contemporanea, su cui vigila la memoria dei baristi per il caffè preferito da ciascuno dei clienti, preservando tale «la certezza fiabesca di esistere» (Varietà).
C’è spazio per l’incertezza dell’esistenza, a partire da quella sospesa dentro i sogni (Il ladro di lenzuola), perché se è vero che siamo fatti della loro stessa sostanza, come suggerisce la lezione shakespeariana, allora è legittimo custodire tutte le lenzuola tra le quali il protagonista del racconto ha dormito, fino a trafugarle dagli alberghi, con un’avidità compulsiva nel custodire il mistero delle proprie notti.
Così è per l’incertezza dell’indigenza, dello stato di necessità, che espone a un’attesa (Ferma in piedi aspettando), comune alla mendicante e all’autrice, che si interroga sulle apparizioni della strana donna nel quartiere.
Così è infine per l’incertezza del tempo che ci separa dalla fine (Immobilità e disordine), una condizione che prova come «l’amore degli altri verso di noi è garante della nostra esistenza». Sono particolarmente queste pagine a consegnare le radici dell’ispirazione letteraria di Patrizia Cavalli, a proposito della distanza tra parlare e scrivere: «Le parole dette sono provvisorie, non si possono ascoltare una seconda volta, (…) il significato non è rigido e univoco, ha le attenuanti dell’intonazione. (…) Il pensiero pensato comprende il tutto, quello scritto solo il particolare. E a testimoniare l’espressività connaturata all’esperienza della vita, non all’esigenza comunicativa inscenata per i lettori: «Scrivo poesie perché nella poesia c’è più ambiguità che nella prosa (NON È VERO), ma nella poesia resta sempre un mistero grande o piccolo, resta cioè una zona oscura che si sottrae al giudizio logico. Per questo non metto titoli alle mie poesie, per sottrarmi a una definizione. Questa è anche la ragione della loro brevità, sono come piccole uscite, piccoli sassi lanciati fuori, rotondi e chiusi, nella brevità c’è meno rischio del vuoto, di quella frattura dove qualcuno potrebbe inserirsi. Ma il suono che producono questi sassolini è tutto mio, è insediato dentro di me e io ci sto seduta sopra con tutto il mio peso».
Questo raccoglimento nella poesia non conosce tristezza, è una solitudine consapevole, come lo è dell’invenzione dell’amore, della sua esplosione e della sua caducità. La leggerezza di una chiara confusione contagia le prose come i versi, cedendo dove la permeabilità del corpo malato apre la strada a vuoti colmati dal cortisone (Varietà), mentre la cura potrebbe venire dall’apparizione dell’amata, «con l’andatura lenta, considerata, assorta». Sono altri passi, che intervengono a rappresentare la misura che può avvicinare o allontanare per sempre.
Riferimenti bibliografici
- Patrizia Cavalli, Con passi giapponesi (Einaudi 2019)
- Patrizia Cavalli, Poesie 1974-1992 (Einaudi 1997)
- Patrizia Cavalli, Vita meravigliosa (Einaudi 2020)
- Alfonso Berardinelli, Canto di amore e di musica. Le poesie di Patrizia Cavalli, in Il Foglio, 7 dicembre 2013
- Silvia Ronchey, La Signora della poesia in Robinson, 28 aprile 2019
- Annalena Benini, Patrizia Cavalli fa camminare insieme la comicità e la tragedia, con passi giapponesi, in Il Foglio 15 giugno 2019
- Sandra Petrignani, Addio a Patrizia Cavalli in Domani, 21 giugno 2022
- Silvia Ronchey, La poesia della vita, in Repubblica, 22 giugno 2022
- Pietro Polverini, Vita meravigliosa di Patrizia Cavalli, in Nuovi argomenti, 1°luglio 2022
- Italo Calvino, Collezione di sabbia (Oscar Mondadori, 2023)
- Leonetta Bentivoglio, Una chiara confusione. Per Patrizia Cavalli (Edizioni Clichy, 2025)