C’è un paradosso che profuma di cannella e carne alla griglia: la cucina greca, celebrata in tutto il mondo come simbolo mediterraneo per eccellenza, è, in realtà, una creatura cosmopolita. Molti dei suoi piatti più amati — dalla moussaka alla baklava, dal tzatziki ai dolmades — hanno radici turche.

Come scrisse Paul Theroux ne Le Colonne d’Ercole (1993):

“Il cibo greco è in realtà cibo turco, e molte parole che consideriamo distintivamente greche, sono in realtà turche — kebab, doner, kofta, meze, taramasalata, dolma, yogurt, moussaka… tutto turco.”

Theroux, con la sua ironia caustica, non era lontano dal vero.        

Quando l’Impero Ottomano dominava il Mediterraneo orientale, portò con sé non solo soldati e funzionari, ma anche ricette, spezie e tecniche culinarie. La Grecia — allora parte di quell’immenso mosaico di culture — assorbì i profumi di Istanbul, le spezie di Aleppo, i dolci sciropposi di Damasco.

Poi, nei secoli successivi, ribattezzò tutto: il börek divenne spanakopita, il cacık divenne tzatziki, la sarma si trasformò in dolmades, la musakka mise la giacca europea e si coprì di besciamella, inventando così un “piatto nazionale” che era, in realtà, un brillante caso di appropriazione culinaria riuscita – altri Paesi balcanici hanno mantenuto nomi più fedeli all’originale turco: il börek è rimasto burek in Serbia, Bulgaria e Romania; la sarma si chiama sarma in Serbia e sarmale in Romania.


“Marketing ellenico: come il souvlaki conquistò il mondo e il kebab restò a casa”

La verità è che la Grecia ha saputo fare ciò che i suoi vicini non hanno mai osato fare:
vendere la propria cucina come un’estensione della propria identità culturale.     
Mentre Turchia, Serbia, Bulgaria o Bosnia non esportavano i loro piatti se non sporadicamente, la Grecia li ha trasformati in ambasciatori gastronomici.

Un piatto come il gyros (cugino del doner kebab) è diventato emblema nazionale. Il meze, che in turco e in persiano significa semplicemente “assaggio”, è diventato una filosofia: piccoli piatti, grandi conversazioni, vino bianco e una certa idea di dolce vita mediterranea.

È un piccolo capolavoro di branding culturale: una cucina condivisa da mezzo Oriente, ma raccontata con l’accento greco e il sorriso beato da isola delle Cicladi.


“Quando la Sicilia si specchiava nell’Egeo”

Prima ancora che i Turchi arrivassero a Costantinopoli, c’erano già i Greci in Sicilia — e con loro arrivò il gusto. 

Nella Siracusa di Platone e di Archestrato di Gela si cucinava come in nessun altro luogo del mondo antico.

Come racconta Ateneo di Naucrati nei Deipnosofisti, qui si trovavano scuole di gastronomia, trattati di cucina e cuochi famosi: veri e propri maestri dell’arte culinaria come Miteco Siculo, Labdaco e Terpsione.
Non si limitavano a nutrire: studiavano, sperimentavano, filosofavano sul cibo.

Archestrato — che possiamo considerare il primo critico gastronomico della storia — celebrava la Sicilia come la patria del buon gusto e dei migliori ingredienti del Mediterraneo.         
In un celebre frammento, lodava il mare aretuseo:  
“Mangia il tonno, o amico, soltanto nella gloriosa Siracusa: lì il pesce è più dolce e più degno degli dèi.”

Da quella Sicilia ellenica nacque la prima “arte del gusto” mediterranea: legumi, pesci, erbe aromatiche, vino, miele, olio.

Col passare dei secoli, quell’eredità si fuse con le influenze arabe, normanne e bizantine.

Ogni epoca aggiunse un ingrediente, ogni popolo una sfumatura: ma l’idea di fondo — che il cibo potesse essere pensiero, estetica e identità — quella, non se n’è mai andata.


Quando oggi assaggiamo una moussaka ad Atene o una parmigiana a Palermo, sentiamo la stessa melanzana raccontare due storie: una cotta nel forno greco con cannella e besciamella, l’altra nel tegame siciliano con pomodoro e basilico. Due destini, un unico ortaggio.


“Morale della favola (e del pranzo): il Mediterraneo è un grande tavolo condiviso”

Grecia e Sicilia condividono molto più di un mare: condividono un linguaggio del sapore.
Entrambe amano la semplicità e la materia prima, l’olio d’oliva che profuma di sole, le erbe che crescono fra le pietre, il pesce che sa di sale e di vento.

Ma la Sicilia, più arabesca, gioca con zucchero, agrumi e cannella; la Grecia resta più essenziale nella sua dolcezza: miele, yogurt, frutta secca, sciroppo. Una dolcezza “spirituale”, verrebbe da dire, che guarda più al Monte Athos che alle corti normanne — ma che non ha dimenticato i profumi d’Oriente. Perché, attraverso l’Impero Ottomano, la Turchia ha lasciato il suo sigillo aromatico sulla cucina greca: nei dolmades avvolti in foglie di vite, nel miele della baklava che scintilla d’oro come la luce di Istanbul.

Alla fine, non è poi così importante stabilire chi abbia inventato cosa.

La cucina greca, come quella siciliana — e come quella turca, sua sorella maggiore e rivale — è figlia di contaminazioni, invasioni, migrazioni e memorie.

È un archivio commestibile della storia del Mediterraneo: ogni piatto un capitolo, ogni spezia una parola, ogni profumo una citazione.

Forse, la vera lezione è che il cibo, come la cultura, non conosce confini. E ogni volta che qualcuno ordina un gyros, una baklava o una pasta con le sarde, il mare che separa Atene da Palermo — e da Istanbul — diventa un po’ più stretto.

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