
“…ho previsto che sarei
restato solo in casa mia
e mi butto sopra il letto
e mi abbraccio il tuo cuscino
non ho saputo prevedere
solo che però adesso io
vorrei morire.”
La sala d’attesa era un vuoto freddo, si sentivano i pianti dei gatti e quelli delle loro madri umane, la disperazione di persone che facevano transazioni dall’altro lato della parete, bip… bip… bip… suono di monitor.
Lo vidi alle 11 del mattino. Avevo appena lavato il suo peluche preferito: uno scoiattolo con una coda folta. Pensavo a lui, a come avesse passato la notte, a che non sentisse di essere stato abbandonato. Quando lo vidi incapace di muoversi in quella capsula dove gli avevano messo sei borse di acqua calda per alzare la sua temperatura, mi si spezzò il cuore. Appena riusciva a respirare.
Il maledetto bip…bip del monitor lo innervosiva, anche me. Il mio angelo d’amore stava morendo davanti ai miei occhi. Mi ha tenuto per un dito, lo baciai, aprì ancora una volta i suoi occhietti azzurri che tanto mi facevano impazzire e gli dissi: “Adesso che siamo insieme, tutto andrà meglio” e così, a mezzogiorno, il mio bebè stese il suo corpo all’indietro facendo schioccare una per una le sue vertebre. Bip…bip…un sospiro finale…chiusura di palpebre. Ho implorato per aiuto e lo portarono via in fretta per tentare di rianimarlo.
Scongiurai Dio, mi inginocchiai con l’ombra tremante del mio corpo, gli dissi che avrei fatto qualsiasi cosa ma che non me lo portasse via. Avrei dato tutto o quel poco che avevo per altri sei anni al suo fianco. Ma dopo dieci minuti cominciò una tempesta e con essa arrivò il veterinario con alcuni esami. Mi spiegò che il livello di fosforo nel sangue di Limbo era superiore alla media. Poi disse quattro parole che avevo sempre temuto: “LUI È APPENA MORTO.”
In quel momento smisi di ascoltare, di vedere, di parlare. Sentii soltanto come dall’interno del mio corpo tutto cominciava a tremare. Mesi prima avevo ascoltato “Era già tutto previsto” di Riccardo Cocciante. Quell’interpretazione mi sembrava esagerata. Non mi provocava nulla. All’improvviso, tutto cambiò. Quelle quattro parole erano apparse per cambiare la mia vita per sempre. Fu come trovarsi in mezzo all’occhio di un uragano. Attraversare un tornado, stare all’ultimo piano di un edificio quando la terra comincia ad aprirsi con il più catastrofico dei terremoti. Ero una minuscola formica schiacciata dalla punta delle dita, ero una particella che si dissolveva senza la volontà di tornare a esistere. All’improvviso, tutto il dolore del mondo mi apparteneva.
Il giorno in cui Limbo morì, una parte della donna che ero se ne andò con lui. Quel vuoto dove stava il mio cuore somigliava alla fredda e solitaria sala d’attesa. I miei battiti erano il “bip-bip” incomprensibile e maledetto che avrei voluto strapparmi dalla testa.
E il lamento morente di quella canzone di Riccardo Cocciante, acquistò senso. Quel grido muto. Quel modo terribile di sentire come la vita vedeva Il mio corpo appallottolarsi. Come ognuno dei miei organi implose con furia e senza pietà in meno di un secondo, senza aspettarmelo, senza chiederlo. Come i miei sfinteri si ridussero in polvere e lasciai scivolare acqua lungo le mie gambe mentre sentivo bruciare ciascuno dei miei atomi. Solo così, perché era volontà del destino. Perché mi toccava sperimentarlo, forse per capire quale fosse il significato della morte.
Tuttavia, nonostante la crudeltà della malattia avanzata che si era scatenata in un essere così innocente, la solitudine di madre, l’abbandono di figlio, la morte e l’ingiustizia della mia anima spezzata, l’amore che sento persiste.