
Dicono che una casa non è la stessa cosa di una famiglia. Non sappiamo mai che stiamo costruendo una famiglia finché qualcosa o qualcuno diventa parte del suolo che calpestiamo.
Sei anni fa decisi di adottare un gatto. Decisi di chiamarlo “Limbo”, dal poema di Antonin Artaud, L’ombelico dei limbi. Limbo arrivò senza avvisare che sarebbe rimasto; non avevo mai adottato nessuno, tanto meno un essere così piccolo e vulnerabile. Lo portai a casa come si portano le cose piccole: senza rumore, senza discorsi. Un gattino completamente bianco con un neo accanto al naso. Presto gli spuntarono macchie marroni e la coda si dipinse completamente di scuro. Era minuscolo, come un dubbio. Ardente di domande, come il poema.
Pensavo di salvarlo, di portarlo in un luogo sicuro: la mia casa. Non mi fermai mai a pensare che fosse lui a costruirmi un un rifugio. Non ci furono progetti di costruzione, né fondamenta visibili. L’opera iniziò in silenzio: la prima volta che dormimmo nello stesso letto, rannicchiati. Il primo miagolio che mi costrinse a interrompere una giornata grigia, il primo salto sulle mie gambe mentre maledicevo il mondo, come se sapesse che lì, proprio lì, doveva stare per calmare il mio spirito.
Ogni suo gesto era una pietra posata con cura, anche se era un turbine carico di energia. Ogni routine – quel modo in cui si sdraiava sempre all’angolo del letto vicino ai miei piedi, o come mi faceva la guardia alla porta del bagno senza che glielo chiedessi – diventava una trave che sosteneva le mie giornate.
Quello che abbiamo fatto insieme era più che condividere uno spazio: abbiamo innalzato una struttura dal fondo del cuore, dove prima c’erano solo pareti vuote. Giuro che allora non lo sapevo, ma stavo imparando il significato di convivere con un animaletto che non chiede nulla in cambio, semplicemente trasforma. Un gatto non ti chiede di guardarlo, ma quando lo fai, cambia il modo in cui vedi il mondo. Un gatto non si impone, ma la sua assenza pesa come se qualcosa dentro di te crollasse.
Eppure, il refugio che ha costruito è rimasto. Anche con la sua partenza, l’architettura persiste: la memoria come tetto, i ricordi come stanze aperte, l’amore come la fondamenta più profonda e resistente. A volte entro in quello spazio ad occhi chiusi, lo percorro senza toccare nulla. Tutto è ancora lì: l’angolo dove dormiva nei pomeriggi, l’ombra del suo corpo dietro le vetrine, l’abitudine di chiamarlo “Amore mio” quando arrivavo a casa e lui saltava dal letto per venirmi incontro annusandomi.
Costruire non è sempre fare, a volte è semplicemente esserci. E lui c’è stato per sei anni e ventotto giorni. C’è stato mentre io cambiavo forma, tristezza, forza. C’è stato come resta ciò che è essenziale: senza rumore, senza fretta, senza promessa. E ora che non c’è più, mi fa male ammetterlo, ma davvero non c’è una rovina. C’è un’opera compiuta. Una famiglia che non crolla, anche se manca chi lo abitava. Ora, uno spazio dentro di me porta il suo nome. Inconfondibile. Unico. Originale. Un edificio costruito con l’amore più puro e leale, come Limbo.