
Uno dei temi più divisivi e controversi del dibattito pubblico è sicuramente quello sull’immigrazione. L’approccio è quasi sempre, da destra a sinistra, ideologico e preconcetto. Se da un lato si gioca ignobilmente su paura e pregiudizi per accaparrare voti e consensi (salvo poi ignorare i fallimenti disastrosi delle proprie politiche, anche in termini di numero di ingressi), dall’altro spesso si tiene poco conto delle problematiche concrete che il fenomeno migratorio comporta se non lo si affronta con serietà. E così diventa impossibile impostare un dialogo serio e costruttivo che porti a soluzioni reali.
Eppure, se solo i nostri rappresentanti politici si sforzassero di volgere lo sguardo un po’ più in là del loro naso, scoprirebbero che è possibile cambiare le cose in meglio soddisfacendo le istanze di tutti. Un faro, in questo senso, è la città belga di Malines (Mechelen in olandese). 80.000 abitanti, situata nella provincia di Anversa, 20 anni fa era considerata un luogo di assoluto degrado, privo di presente e di futuro, una sorta di Bronx dei film americani degli anni 70/80, uno di quei luoghi di malessere nei quali nessuno vorrebbe vivere. Nel 2001 i primati di questa città erano devastanti: il tasso di criminalità più alto del Belgio e la città più sporca delle Fiandre.
Il sindaco Bart Somers, di idee liberali (premio World Mayor Prize, miglior sindaco del mondo 2016), cominciò a ragionare senza paraocchi su come poter cambiare concretamente le cose. Il suo operato, come lui stesso dichiara, aveva due “gambe”: la sicurezza (importante investimento sulle forze di polizia, orientate però ad un atteggiamento non appariscente e di rispetto) e l’integrazione (politiche abitative, scolastiche, lavorative, sociali inclusive ed efficaci, corsi di cittadinanza, scuole professionali). Sono 20.000 i migranti che vivono in città, una percentuale altissima. Eppure la Mechelen di oggi è una delle città più pulite del Belgio, i tanti negozi sfitti di 20 anni fa non lo sono più, i reati di strada sono diminuiti dell’84% (!), il reddito medio si è alzato notevolmente. Ed una comunità che 20 anni fa votava massicciamente l’estrema destra in preda alla paura, oggi acconsente all’accoglienza (e integrazione) di centinaia di rifugiati. Perché la paura è stata sostituita da un razionale (e operativo) ottimismo. Un ruolo centrale in questo processo l’hanno avuto il volontariato e la popolazione locale. Il migrante viene accompagnato per 6 mesi in modo da imparare la lingua, le regole comuni ecc. Una sorta di mediazione interculturale concreta (anche grazie a studenti di seconda generazione).
Non mi sono mai recato di persona a Mechelen, questo pezzo è frutto di notizie estrapolate da programmi televisivi di approfondimento e articoli su internet. Ad ogni modo il successo di questa esperienza sembra inequivocabile. Lo dicono i numeri che abbiamo citato; essi ci dimostrano che il cambiamento è possibile solo se ampliamo l’orizzonte, se abbandoniamo luoghi comuni e pregiudizi e ci mettiamo empaticamente nei panni degli altri, di tutti gli altri: i migranti che arrivano da tragedie personali indicibili e i residenti spaventati. La loro paura va rispettata e “curata” con fatti concreti, con una presenza reale delle istituzioni a tutti i livelli. Purtroppo un migrante lasciato allo sbaraglio, senza documenti, senza mediazioni, senza nessun processo di integrazione, senza accompagnamenti di nessun tipo, è più facile che in tali condizioni inizi a delinquere o a lasciarsi andare pericolosamente. Per non parlare delle patologie psichiatriche che si scatenano dopo esperienze al limite di ogni possibile sopportazione umana.
Una volta, ad un convegno di Mani Tese (ONG con cui ho collaborato per tanti anni) venne espresso un concetto che secondo me è il nodo centrale della questione: “per problemi complessi ci vogliono soluzioni complesse”. È esattamente questo, secondo me, lo sforzo che dovremmo chiedere ai nostri rappresentanti nei parlamenti. Non è con gli slogan, con le frasi ad effetto, con il tifo da stadio che si risolvono problemi importanti. A questo si aggiunge la necessità di un atteggiamento empatico e aperto che ci aiuti a superare la cosiddetta “mentalità dello scarto” e che, come ci insegna l’esperienza di Mechelen, alla fine conviene a tutti, anche a noi.
“Restiamo umani”, questo era l’invito di Vittorio Arrigoni (ucciso a Gaza nel 2011) e, in questi tempi bui, dovremmo tutti farlo nostro.