Come in una beatitudine di Borges, il teorema di “Scicli, città felice” nel romanzo Le città del mondo di Elio Vittorini (1908-1966), se da un lato privilegia la dimensione del mito fuori dal tempo, raccogliendo la sintesi di architetture, paesaggi e temi cari all’autore, dall’altro si costruisce e consolida anche attraverso quanto la scrittura e la letteratura hanno raccontato intorno al celebre centro ibleo, gioiello barocco, e alla sua meraviglia silente, incastonata “all’incrocio di tre valloni, con case da ogni parte su per i dirupi, una grande piazza in basso a cavallo del letto d’una fiumara, e antichi fabbricati ecclesiastici che coronano in più punti, come acropoli barocche, il semicerchio delle altitudini”.

“Capii che Scicli aveva qualcosa nella sua accoglienza, nella sua dolcezza, nella sua placidità, un che di femminile, quasi di materno. (…) Non era una bella donna morbidamente adagiata sui cuscini quella città che mi sorrideva in fondo alla valle” – scrive Luca Zingaretti, rievocando il primo stupore nella prefazione a Scicli, città felice di Armando Rotoletti (Rotoletti, 2014), forse non senza conoscere le magnifiche suggestioni dedicate da Gesualdo Bufalino a un’altra raffinata ammaliatrice. “Ibla è città che recita con due voci, insomma. Talvolta da un podio eloquente, più spesso a fior di labbra, in sordina, come conviene a una terra che indossa il suo barocco col ritegno d’una dama antica.” (La luce e il lutto, Sellerio 1988). L’epifania di salvifica bellezza di questa terra di dame nasce da un atto di amore e resistenza all’indomani del tragico terremoto del 1693, e la ricostruzione determinerà il sostrato comune alle cittadine del Val di Noto, dove fioriranno le volute barocche in pietra dei palazzi gentilizi e gli arditi prospetti convessi di chiese e cattedrali, superbi come vele al vento.

“Il Barocco non è stato solamente il frutto di una coincidenza storica” – scrive Vincenzo Consolo, a connotare l’identità antropologica del territorio ibleo – ma anche “un’esigenza dell’anima contro lo smarrimento della solitudine, dell’indistinto, del deserto, contro la vertigine del nulla”, un disegno di “quinte di pietra intagliata, fantastiche mensole che sorreggono palchi e tribune, allegorie, simboli ed emblemi, mascheroni e grottesche, rigonfi di grate e inferriate, cupole, logge e pinnacoli, vie e piazze, gradinate, sagrati e terrazze, contro fondali, prospettive impensate, in una scenografia onirica o surreale” (La Sicilia passeggiata, Mimesis 2021).

Si intende come questo magnifico teatro vivente sia stato scelto nel 1998 da Luciano Ricceri, scenografo de Il commissario Montalbano, per la trasposizione televisiva, tanto da persuadere Andrea Camilleri ad archiviare l’ambientazione a Porto Empedocle, e a preferire l’incanto fuori dal tempo dei centri storici iblei, abbandonati dagli abitanti per i palazzi moderni, e pervasi da “quella sensazione straordinaria, ma abbastanza frequente in Sicilia, che trasmettono le strade deserte, con la gente accaldata chiusa in casa. (…) Queste città furono ricostruite tutte dopo il grande terremoto del Seicento e ripensate in modo tale da creare uno straordinario continuum topografico e architettonico. Un capolavoro.” (Micromega n. 5/18)

Di questo territorio, Vittorini ha una conoscenza empirica, che esclude l’ascendenza ai primordi di un “catasto magico”, quale quello che Maria Corti rintraccia nel territorio etneo, in corrispondenza della vitalità sempiterna del vulcano (Catasto magico, Einaudi 1999). “Mio padre era ferroviere” – racconta Vittorini in un’intervista per la Rai, parlando di sé e della propria formazione e vocazione per la letteratura – “e questo mi portò a passare parecchi inverni della mia infanzia in una serie di piccole stazioni che posso ricordare come una sola, isolata in una meravigliosa campagna di colline di terra rossa e colline di terra bionda, coltivata in genere a viti nane. Fu là che feci le mie prime grandi letture. Prima e più grande di tutte quella del Robinson Crusoe”. E dopo gli anni a Gorizia e a Firenze, la sua città sarà Milano, che mostrerà di confermare nella scelta anche attraverso la predilezione per quanto è in movimento, in evoluzione. Si tratta di un’esigenza che dapprima si innesta sull’antifascismo e sulla critica alla censura e al veto all’innesto di elementi stranieri nella cultura italiana; e che poi si fa sempre più concreta, con la scrittura,  l’esperienza in Einaudi e la fondazione delle riviste Il Politecnico (1945-47) e Menabò (1959-66), aperte al dibattito culturale anche fuori dal confine nazionale, e a intercettare tendenze nuove, al fine di emendare dal provincialismo e dai modelli ancora ottocenteschi la produzione letteraria italiana.

Vittorini propende per una letteratura d’impegno, “una letteratura arteriosa anziché venosa”, in grado di consegnare messaggi e contenuti, di informare e non solo di esprimere. Anzi, in materia di espressività, la scelta di una lingua asciutta ed esatta, senza infingimenti, diventa la cifra della sua produzione e delle sue traduzioni, con le quali la letteratura americana giunge in Italia.  Si inserisce in questo solco la diffusione di Faulkner, Steinbeck, Dos Passos, Saroyan e soprattutto di Hemingway, che per Vittorini scrisse la prefazione del suo Conversazione in Sicilia (1941), con parole che suonano come il manifesto dello scrivere per condurre l’acqua in una terra arida, e portarvi nutrimento e tanto altro: In questo libro la pioggia che si ottiene è la Sicilia”.

Il romanzo riscosse successo, presentando attraverso il mito simbolico del “ritorno alla madre” l’indagine su di sé del protagonista Silvestro, alter ego dell’autore, e su un mondo avviato al cambiamento, realizzato al Nord e atteso al Sud. “Per gli isolani che vivono sulla terraferma la poesia è sempre odissea” – scrive Nadia Terranova nella prefazione all’edizione Bompiani – “ecco perché sono convinta che ogni volta che scriviamo dell’origine, stiamo tornando a casa e che Conversazione in Sicilia sia una forma di fuoco nel mare, miraggio sciamanico e robusto dalle radici rocciosamente acquatiche. (…) Quel mondo, per noi, potrà acquistare una consistenza credibile solo nella fatica della ricomposizione artistica, mentre ci smentirà ogni volta che decideremo di raggiungerlo con un viaggio vero”. A essere affascinato dal romanzo è anche Renato Guttuso, che ne illustrò i disegni tra il 1941 e il 1943 per un’edizione tuttavia mai realizzata. Eppure Vittorini affidò spesso al pittore siciliano i disegni per Il Politecnico, attribuendogli “un istinto da rabdomante” nel rivelare attraverso le immagini quanto uno scrittore non sa di avere detto. Dal canto suo, Guttuso mostra di stimare l’amico e di difenderlo nell’ambito delle divisioni politiche in seno al partito, riconoscendolo come “l’unico scrittore italiano che reagisca sempre di fronte alla realtà”.

Quella del viaggio per Vittorini non è solo finzione letteraria, ma dimensione e misura della realtà circostante. Ogni romanzo di Vittorini ha come forma mitica quella del viaggio, come forma stilistica quella del dialogo, come forma concettuale quella dell’utopia” – scrive Maria Corti (prefazione a Elio Vittorini. Opere narrative, Mondadori 1974), così introducendo il realismo mitico, ovvero il racconto di un pellegrinaggio arcadico in cui tutto può accadere e a fare la differenza è la bellezza dei luoghi, che è anche libertà, perché “la gente è contenta nelle città che sono belle”.

 In questo senso, il romanzo Le città del mondo (1952-54), interrotto per motivi personali e rimasto incompiuto per la scomparsa dello scrittore, e la sceneggiatura completata (1958-59) rappresentano la ricerca della bellezza per le quattro coppie di personaggi (Rosario e il padre, pastori; Matteo e Nardo, che avranno maggiore spazio nella sceneggiatura per Nelo Risi e Fabio Carpi; i due sposi; le due donne), in viaggio attraverso una serie di città siciliane, quali Scicli, la più bella, e Agira, accostabile ad Atene, per l’eccellenza democratica. Il tema della città ha portata rivoluzionaria, in quanto si offre anche come sintesi di umanesimo e progresso, cultura e scienza, ma soprattutto di convivenza felice tra gli uomini. Vittorini aveva curato la omonima rubrica su Il Politecnico nel 1946, scegliendo New York, quale esempio modernissimo del superamento dell’incomunicabilità della Torre di Babele; Chartres, quale prototipo dell’antica Agorà, luogo di confronto dialettico; e dalla lettera ad Albe Steiner del 1°ottobre 1946 ricaviamo che aveva in mente un numero dedicato a Città del Messico.

Del resto, l’attenzione per l’organizzazione dello sviluppo urbano era diffusa già dal primo dopoguerra, connessa alla ricostruzione fisica e sociale dei centri cittadini. Al tema, ad esempio, si era interessato Adriano Olivetti, in contatto con Le Corbusier già negli anni Trenta, per gli studi sulla civiltà industriale e sull’interazione tra la comunità e la fabbrica. Si erano incontrati quando l’architetto franco-svizzero lavorava al progetto di un villaggio industriale in Cecoslovacchia; e poi per il sogno di Olivetti di una “fabbrica manifesto” a Ivrea, in cui il mondo nuovo dell’elettronica potesse trovare la propria dimensione vincente. Contestualmente, l’imprenditore animava le assemblee in fabbrica e nelle sedi istituzionali con discorsi visionari sul futuro delle città, in cui auspicava il decentramento e il silenzio contro il rumore e il ricorso all’elemento verticale anziché a quello orizzontale, intendendo nel primo il grattacielo e nel secondo i collegamenti urbani.

Più avanti, anche Calvino avrebbe affrontato l’urbanistica della convivenza felice con Le città invisibili (1972, guardando a Marco Polo e alla declinazione fantastica dell’utopia.

 Abbandonata la stesura de Le città del mondo, Vittorini abdica di buon grado in favore della sceneggiatura, come si evince dalla corrispondenza con il regista, e ammette di provare avversione per il romanzo lungo, riscontrandovi una drammaticità artificiale. Il suo interesse è piuttosto quello di mantenere l’immagine della Sicilia in Conversazione, del presente e del passato, cercando sempre di cogliere “l’aspirazione al nuovo che c’è nel vecchio”.

A dare alle stampe il romanzo corale sarà la curatela di Vito Camerano e Italo Calvino, a tre anni dalla scomparsa dell’autore. La morte di Vittorini apre un grande vuoto culturale e umano: spariscono l’editor esigente, il cacciatore di talenti e l’amico, emblema di un fuoco sacro sempre acceso. Lo scrittore muore il 12 febbraio 1966 e nella lettera a Giuseppe Grasso del successivo 30 settembre Calvino manifesta il proposito di raccoglierne gli scritti insieme a Vito Camerano, accompagnandoli con saggi sulla sua posizione culturale e contributi quanto più autobiografici, per fare conoscere “il suo modo di lavorare o la sua umanità”. È un impegno indifferibile, un atto cui Calvino si predispone con rassegnazione e affetto: “So che è difficile, che non si sa da che parte incominciare”.

Di tutti, lui è forse quello con cui ha lavorato di più, quello che lo ha meglio osservato. “Era sempre difficile capire le ragioni delle sue scelte, capire e prevedere quello che gli sarebbe piaciuto, e quello che non gli sarebbe piaciuto. Tante volte gli facevo leggere una cosa che dicevo questo dovrebbe piacergli invece non gli piaceva, era sempre imprevedibile e per anni mi rompevo la testa per cercare di capire un sistema delle sue scelte. Il sistema era che lui non aveva sistema, che è che non reagiva mai due volte allo stesso modo”. Non incoraggiava il manierismo vittoriniano, e se lo adottava, poco dopo si muoveva in un’altra direzione, come un eterno nomade. “Era sempre l’uomo del movimento, mosso da un desiderio conoscitivo. La conoscenza era sempre di un modo di vivere, di un’immagine di civiltà e di felicità (…). Ma questo per un suo bisogno vitale e non per scriverlo. Nello scrivere veniva fuori tutto questo.”

In quella Sicilia opulenta di Storia e di storie, terra madre e colonia, porto e scoglio di mare, Calvino si era già addentrato attraverso il lavoro editoriale, culminando nella raccolta degli scritti di Pitré per le Fiabe Italiane (1956) e nell’incontro con Leonardo Sciascia, cui era seguita la rivelazione dello scrittore e di un’ulteriore dimensione dell’isola infinita. Li legheranno un fitto scambio epistolare, l’amicizia, gli ideali antifascisti e un illuminismo della ragione, quale parametro per comprendere la Storia umana. Quella sazietà soddisfatta dal dilagare dei temi isolani gli faceva scrivere a Sciascia parole ironiche e pungenti: “Da un po’ di tempo mi accorgo che ogni cosa nuova che leggo sulla Sicilia è una divertente variazione su un tema di cui ormai mi sembra di sapere già tutto (…)” (10 novembre 1965). E la replica suonava come la voce di un oracolo, preferendo lo scrittore siciliano al presente morto il passato degli archivi (22 novembre 1965).

E proprio Sciascia si era soffermato sull’individuazione del sentimento della sicilitudine negli scrittori isolani e in Vittorini aveva riconosciuto “la dualità” antisiciliana tra il suo amore per “la terra del Nord che è ordine coscienza, società, storia, in contrapposizione all’isola natale che è caos, dispersione, negazione della storia”, risolvendo il conflitto in “una sintesi illusoria, simbolica, mitica: la Lombardia siciliana”. La sua geografia è ne Le Città del mondo, in cui la gente mostra nei tratti, nella lingua, nella cultura, nell’impegno civile, i caratteri di una società più evoluta. È una Sicilia non più contadina, ma industriale, non più immobile, ma vitale nelle piazze dove ciascun uomo può sognare la Storia di domani. E ne aveva ricavato il ritratto della contraddizione costante e irredimibile: “nec tecum nec sine te vivere possum”.

Riferimenti bibliografici

  • Elio Vittorini, Le città del mondo, Bompiani 2021
  • Elio Vittorini, Le città del mondo. Una sceneggiatura, Einaudi 1975
  • Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, Bompiani 2022
  • Vincenzo Consolo, La Sicilia passeggiata (Mimesis 2021)
  • Luciano Ricceri, Alla ricerca di Vigata in Micromega “Camilleri sono”, n. 5/2018
  • Paolo Parlavecchia, Renato Guttuso. Un ritratto del XX secolo, Utet 2007)
  • Adriano Olivetti, Noi sogniamo il silenzio (1956) in Il mondo che nasce, (Edizioni di Comunità 2013)
  • Italo Calvino, Leonardo Sciascia, L’Illuminismo mio e tuo. Carteggio 1953-1985, Mondadori 2023
  • Italo Calvino, Lettere 1940-1985, Mondadori 2023
  • Lavinia Spalanca, Ladri di luce. Leonardo Sciascia e Piero Guccione tra bellezza e verità (Leo S. Olschki 2023)

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