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Una voce libera

Sergio Guastella 14 ottobre 2024


Lina Carpinteri è stata giornalista televisiva di TELENOVA, TV locale di Ragusa che per anni ha rappresentato un fulgido esempio di giornalismo “faziosamente libero” e “disordinatamente schierato”. Ha fustigato per anni, dalle pagine video di Telenova, i rappresentanti politici ragusani e i ragusani stessi, scuotendoli dal torpore e “spigandogli cosa pensavano”.
Con voce libera, con uno stile acculturato ma mai barocco, con un’ironia sottile (a tratti satirica ma mai volgare), Lina ha commentato su Telenova i fatti e gli accadimenti di diversi decenni della Città di Ragusa. Ha avuto tanti riconoscimenti per il suo lavoro e ha pagato sulla propria pelle il suo essere stata sempre schietta ed onesta.
Si può non essere d’accordo sul suo pensiero o su quanto ha scritto negli anni. Ma certo è che mancano al giornalismo ragusano la sua voce e quella di Telenova.

Come è diventata giornalista e quando ha iniziato l’attivita’?
“Gli accadimenti ed i terremoti della vita. Dopo il sisma del novanta, e una dolorosa separazione coniugale, mi sono trasferita da Siracusa a Ragusa e qui ho trovato, dopo circa un anno, la possibilità di curare un progetto di archeologia industriale in una cooperativa, la Gulliver. La Gulliver fra le varie attività aveva fondato Tele Nova e quando si accorsero che sapevo più o meno scrivere provarono ad usare una nuova risorsa. Era il 1991”.

La sua attività l’ha esercitata quasi esclusivamente su Telenova, una tv locale che per anni ha rappresentato a Ragusa un megafono per le idee progressiste e una voce critica contro la politica. Quanto ha inciso il suo orientamento politico nello svolgimento della sua attività?
“La politica è sempre stata nella mia vita pane quotidiano. Mia madre era stata con i partigiani nel cuneese, mio padre fu azionista e poi sino alla morte un socialista dirigente di partito, mia sorella era funzionaria del Pci ed io avevo militato sin da ragazzina prima a Lotta Continua, poi nella Fgci, poi nel Pci. Ma non parlerei di orientamento bensì di formazione civica e morale in cui l’antifascismo e il sogno del mondo migliore erano fari e percorsi naturali anche se a volte rigidi, sacri. Questo denso brodo primordiale, in cui la trasparenza era sempre immaginazione del sol dell’avvenire, è certo quota parte nella tessitura di una personalità. È più di un orientamento, è la bella gabbia o culla in cui sei nato. L’orientamento è scelta libera: guardi e poi decidi. Per fortuna con gli anni ho capito che gli orientamenti variano a seconda dello spazio storico e, facendo la giornalista, ho imparato ad orientare, spero bene, cuore e cervello”.  

I suoi articoli pubblicati sulle pagine video di Telenova hanno spesso dissacrato e in gran parte dileggiato molti politici locali a cui lei non ha mai fatto sconti a prescindere dall’appartenenza politica. Il taglio satirico dei pezzi è stata una scelta narrativa o è casualmente derivato dalla caratteristica intrinseca degli eventi?
“Questa è una storia intima. La politica può essere cronaca o analisi, io ho scelto di raccontarla con il pepe solo perché era più divertente per me che scrivevo e soprattutto per chi leggeva. Quante volte, uscendo per strada o entrando nei negozi, i ragusani mi fermavano per dirmi delle risate che si erano fatti leggendo questo o quell’articolo. Era una cifra spontanea, non sarei mai riuscita a raccontare per 25 anni la politica ragusana guardando i fatti come se i protagonisti fossero corpi senza anima. Dentro la politica ci sono eccome pulsioni vitali e contorcimenti animaleschi, meschini, rabbiosi, passionali. Ho quindi scelto di aprire la gabbia di cui dicevo prima e spalancarla verso un tunnel di luce abbagliante, ingannevole, disorientante e al tempo stesso spietatamente vera: il recinto inviolabile della presa in giro, la satira, dove tutto puoi entro le regole del buon linguaggio umano, senza violenza. Credo, ora che sono vecchia, che fosse come una droga, per me, canzonare i potenti. Ero diversa dal borioso giornalismo di provincia, ero una piccoletta fragile che entrava in un fumetto trascinandomi dietro i sindaci e tutti gli altri in una giostra. Non si poteva avere timore di questa narrazione quotidiana. Eravamo tutti più allegri, vitali, in una sorta di comunione appunto perché con quella cifra si annientava il pericolo, l’Io di chi comanda, il quale veniva graffiato, sgonfiato, e dunque ridimensionato. Se poi vuol sapere del lato ridicolo del Palazzo, è verissimo. Ci si diverte moltissimo da quelle parti”.

L’essere stata sempre esplicitamente schierata le ha prodotto più vantaggi o pregiudizi nella sua attività? Quante querele ha ricevuto dai politici che ha sbeffeggiato nei suoi articoli, e quante condanne ne sono derivate?
“Sia vantaggi che pregiudizi. Ho lavorato tanto e mi sono sentita voluta bene in questa comunità, ed il pregiudizio di essere di parte – che poi era esclusivamente la “parte” della mia coscienza e non certo di gruppi o partiti - è naturale, è sintesi, è file mentale, è catalogazione necessaria errata o giusta. Non puoi impedire al tuo prossimo di crearsi giudizi. Anche qui serve tolleranza, buon senso ed educazione verso chi ti ha in antipatia. Tante, tante, querele. Me ne ricordo bene 15. Mai una condanna per me, solo assoluzioni. È capitato invece a chi mi querelava di essere condannato, e non solo per le spese legali. Questo percorso giudiziario credo sia stato da insegnamento alla politica ragusana, almeno sino a qualche anno fa quando qui a Ragusa era assai di moda intimidire la stampa e vantarsene in città.  Non mi sono mai preoccupata delle querele; mi sembravano risposte infantili e non me la sono mai presa. Ho ricordi così belli degli interrogatori di polizia giudiziaria dove tutto si svolgeva in un clima pacato con l’ufficialità e la sostanza di istituzioni sane. Ho sempre continuato ad avere rapporti con chi si arrabbiava dei miei pezzi e questo mio modo di essere forse ha fatto scaturire qualche dubbio o perplessità spiazzante. È stato, a mio avviso, importante che una donna portasse “un’ariata” diversa”.

Quale è l’articolo che non rifarebbe o che rifarebbe in modo diverso? E quale è l’articolo che avrebbe voluto fare e non ha fatto?
“Quello che ho scritto doveva essere scritto. Quindi nessun pentimento. Il rammarico c’è eccome: quello di non avere scritto l’articolo che avrei sognato per tutta la collettività: la fine del tumore che ha mangiato la città, le costruzioni senza fine, la follia edilizia inutile e barbara, i legami vincolanti ed inquietanti tra politica ed imprese. Non ho potuto raccontare questo miracolo. Sarebbe stato fattibile se il Palazzo avesse avuto la forza di dire basta a questo scempio che ci ha solo impoveriti”.

I suoi articoli e commenti su Telenova hanno spesso rappresentato una manifestazione di opposizione alle amministrazioni che di volta in volta si sono succedute a Ragusa e, non di rado, hanno perfino finito per sostituire l’opposizione istituzionale troppo silente o accondiscendente. Quanto pensa che i suoi articoli abbiano inciso sulle opinioni degli elettori e condizionato la politica ragusana?
“La stampa incide sempre, e ancor di più se si conducono inchieste. È capitato sì che assessori o consiglieri siano stati costretti a dimettersi, o che atti amministrativi siano stati ritirati o modificati. Gli elettori invece sono massa soggetta a troppi casi: simpatia, clientelismo, suggestione. La stampa può solo aprire un po’ la mente, destare curiosità. Il potere della stampa non è condizionante, non è quella arma di fuoco di propaganda a cui è costretta la politica per contattare gli elettori”.  

Dal suo punto di osservazione privilegiato come e in cosa è cambiata la politica in generale e, in particolare, quella ragusana?
“È cambiata in peggio. Maggiore distanza tra istituzioni e cittadini, maggiore ignoranza dei rappresentanti del popolo, partiti inesistenti o trasformati in club privati. La politica ragusana? Da quel che leggo mi sembra che non riescano nemmeno a mettere su decentemente una società pubblica, quella dell’acqua. Penso che la elezione diretta dei sindaci sia stata un tracollo democratico nonostante qualche caso felice là dove, però, il tessuto sociale era forte e abituato allo scambio e al controllo tra potere e comunità. Sindaci che diventano principini che tutto possono. È terribile”.

Le tv locali, che un tempo hanno rappresentato uno strumento di libertà di espressione, si sono dissolte o fanno fatica a resistere. In che modo e con quali rischi oggi possono essere sostituite dai social?
“Tele Nova è stata una oasi di libertà. Tanti giornalisti ben formati, attenti, provenienti dall’area progressista e cattolica che hanno dato voce e spazio a tutti i cittadini, di ogni condizione sociale e di ogni appartenenza partitica e ideale. Mai censure, mai condizionamenti esterni. Questo ci ha puniti. Con l’avvento di internet, la crisi economica, il calo delle pubblicità, la difficoltà di ottenere lavori dalla pubblica amministrazione perché sgraditi, tutto ciò ha messo fine a questa esperienza durata più di trenta anni. Le televisioni locali non sono più voci alternative e popolari. Si dedicano molto allo spettacolo, alle feste di paese, a redazionali su specifici settori, e alla informazione ufficiale. Noi facevamo solo informazione e I social non sostituiscono affatto quel mondo. I social sono il dominio dell’Io. Tu esisti veramente se sei sui social. Che fesseria. Stai ore a rappresentarti tutto orgoglioso e chiuso in casa”.

Il giornalista che scrive sui social in che misura è diverso dal giornalista che scrive, o scriveva, sulle tv locali o sui giornali? Come è cambiata la comunicazione?
“Il giornalista è tale se vive il mondo e quindi va bene se scrive nei giornali, in tv o sui social. La comunicazione è cosa assai diversa. Dubito che questo affannarsi sui social produca crescita individuale o desiderio di sapere. Io continuo a leggere giornali e libri. Non mi sento poco informata non frequentando i social. Se posso permettermi una semplificazione direi che è tutta roba che serve a tenere i cittadini fermi a guardarsi con piacere o orrore l’ombelico senza alzare né occhi né testa”.   

Umberto Eco diceva che “i mezzi di massa non trasportano ideologie, sono essi stessi ideologie”. È ancora attuale, a suo parere, parlare della televisione come mezzo o come linguaggio, considerata l’evoluzione in atto dei mezzi di comunicazione?
“Certo che la televisione ancora resiste. Lo dimostrano le serie tv, i nuovi fantastici romanzi, alcuni di grandissima qualità, che riescono tramite la lunghezza, le stagioni, la completezza – sceneggiatura, musica - a darti il senso storico, psicologico, sociale, politico, di ciò che è narrato.  È dalle grandi serie americane ad esempio che oggi si offre la possibilità di comprendere - anche a chi non ha l’abitudine alla lettura - i limiti, le devastazioni, i pericoli dello stesso capitalismo che ha il coraggio e l’intelligenza di guardare criticamente se stesso. Anche questa è comunicazione contemporanea. I telegiornali, a parte qualche sangiulianata, sono mezzi validissimi”. 

Il termine televisione deriva dal greco “tele” (a distanza) e dal latino “video” (vedo) e descrive per l’appunto la possibilità di far vedere a distanza. I social rischiano di invertire i due termini e la tecnologia attuale piuttosto consente di “essere visti” a distanza più che “di vedere”. Il secondino di De André, nella famosa canzone Don Raffaé, narrava che la mattina si leggeva il giornale per avere spiegato cosa pensasse. C’e’ il rischio che in futuro siano i social a pensare per noi e a spiegarci cosa pensare?
“Già siamo nella fase di appiattimento cerebrale. Informarsi è faticoso, non c’è tempo. Solo occhiate di sfuggita ai titoli dei quotidiani, 10 ore di computer e cellulare. Sappiamo bene che degrado intellettuale stiamo vivendo. Ne usciremo? Solo se ci sarà uno sforzo europeo di ricostruzione del nostro modo di vivere. Altrimenti annegheremo nella paralisi intramezzata dallo stupore per i massacri in famiglia che aumentano come una epidemia. Troppa solitudine, pochi servizi, poca salute fisica e psichica, troppi social. Hai citato De André. Un poeta. Una umanità afflitta che ritrova significato solo con l’amore e la pace. Ora mio caro c’è la guerra. La guerra”.

Sergio Guastella

Sergio Guastella è nato e vive a Ragusa dove, da sveglio, esercita per passione la professione forense e, quando dovrebbe dormire, sfrutta l’insonnia per immaginare altre vite.
Ha pubblicato Il Capitano (2014).
Il suo racconto Cose dell’altro mondo è stato pubblicato (2021) nel volume I racconti dell’ultimo bicchiere edito da LC Publishing Group.
Altro racconto Aspettando Totò è stato pubblicato (2023) nella raccolta di Autori Vari Racconti di Donnafugata edita da Kreativamente Editrice.

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