Il Cammino di Santiago è sicuramente il pellegrinaggio più famoso al mondo. Non si tratta soltanto di un itinerario, ma piuttosto di una fitta rete di itinerari, il più esteso dei quali raggiunge all’incirca i 1000 chilometri. Tuttavia, anche in virtù della sua fama, il Cammino di Santiago è ormai diventata un’esperienza completamente personalizzabile e adatta a tutti.
Ufficialmente, il pellegrinaggio risulta valido se si superano i 100 chilometri a piedi o a cavallo, oppure i 200 in bicicletta. Il percorso minimo più comune per ottenere la cosiddetta Compostela (ovvero la pergamena – scritta in latino! – che attesta e ufficializza il pellegrinaggio) è quello che collega Sarria a Santiago, lungo il Cammino Francese.
Ci sono percorsi estremi e percorsi “per famiglie”, sia in termini di difficoltà tecnica dell’escursione che di densità di dormitori, ostelli ed esercizi commerciali di vario tipo, nei quali è possibile trovare un po’ di ristoro. Qualcuno decide di fare con calma e fermarsi più volte durante il giorno; qualcun altro invece, per motivi che vanno dalla prestazione sportiva a una vera e propria espiazione, preferisce fare tutto d’un fiato, partendo presto la mattina e fermandosi soltanto una volta, la sera.
Quando io e mio padre, lo scorso aprile, ci siamo lanciati in questa piccola avventura (non lo ringrazierò mai abbastanza per avermela proposta), abbiamo incontrato persone di ogni tipo. Una volta siamo stati passati, in salita e con assoluta nonchalance, da un asiatico con gli infradito e uno zaino che era 5 volte il nostro, mentre noi, equipaggiati di tutto punto, restavamo lì trafelati e con un senso di umiliazione addosso che si confondeva col sudore.
Con una coppia di danesi, invece, la sfida era del tutto aperta: erano robuste e scattanti, infatti le avevamo sempre davanti, ma si fermavano prima di noi, così finivamo spesso per passare la notte nello stesso dormitorio. La verità è che non vedevano l’ora di arrivare all’ultimo check-point giornaliero, per potersi scolare in pace, fino a tarda sera, il delizioso vino locale.
Chiunque incontrassimo, la domanda che spontaneamente non potevamo fare a meno di porci era: “perché lo fa? perché è qui a penare anche lui?”, la stessa domanda che si porrebbe a Sisifo incrociandolo mentre trascina il suo masso in cima alla montagna.
A qualcuno abbiamo potuto chiederlo direttamente, di qualcun altro ci hanno soltanto raccontato.
Quando siamo arrivati, ad esempio, circolava la leggenda di un tailandese di 70 anni, fervente cattolico, che si trovava lì perché l’aveva promesso a suo fratello, ormai defunto. Camminava, a quanto pare, con le flebo attaccate al corpo! Spero ce l’abbia fatta senza grossi problemi…
Un ragazzo italiano sui 35, invece, mi ha confidato che la sua attività principale (se non addirittura il suo obiettivo) era, come dire, la ricerca di accoppiamenti effimeri con le pellegrine.
Qualcuno si trovava lì per scrivere, per dipingere, o semplicemente per prendersi una pausa dalla vita ordinaria e dal lavoro. Altri ancora insistevano sul beneficio fisico e dunque puntavano l’attenzione sull’aspetto sportivo.
In generale, ho potuto registrare i motivi più disparati. Meno di quelli che mi aspettavo erano in effetti legati a un sentimento prettamente religioso, ormai francamente in declino, ma in compenso la maggior parte, perfino i casi apparentemente più superficiali e triviali, aveva sempre qualcosa a che vedere con l’aggettivo “spirituale”. Non a caso da millenni la camminata e il viaggio in generale sono associati a una maggiore chiarezza mentale, alla riflessione e al raccoglimento. Basti pensare che una delle più importanti scuole filosofiche dell’antica Grecia, la scuola peripatetica, fondata da Aristotele, si chiamava così proprio in riferimento all’atto del camminare.
E nonostante la parola “spirituale” sia diventata una sorta di jolly, per di più molto inflazionato ultimamente, credo che tutto sommato si presti bene a descrivere attività ed esperienze fuori dagli schemi, che non puntano, come di consueto, alla comodità o al soddisfacimento immediato dei propri desideri.
In questi casi, l’obiettivo coincide fondamentalmente con la crescita personale, con una specie di ricerca e dunque con la speranza di trovare qualcosa, nel cammino, che ancora ci mancava. Un nuovo tassello in forza del quale tutti i precedenti possano in qualche modo riformularsi, a restituirci un’immagine inedita e più completa di chi siamo e cosa possiamo dare alla vita.
In conclusione, credo che quando si tratta del Cammino di Santiago non abbia troppo senso chiedersi il perché lo si fa. Si realizza infatti una magia per cui è l’effetto a precedere la causa, non il contrario: sentiamo una sorta di chiamata, e allora partiamo.
Non intraprendiamo il Cammino di Santiago per un motivo; il motivo lo scopriamo lì, e solo quando finalmente ci sembra di averlo trovato possiamo giustificare l’impulso iniziale a prendere e partire…