Quanti passi mancano all’arrivo? È una questione di gambe, della loro lunghezza, della falcata. Ci siamo quasi, mi dicono, ma non me ne accorgo nemmeno, sono troppo concentrato a misurare il mio passo, ad aumentarne la velocità, che poi è una questione di frequenza. Ma io non frequento nessuno, cammino da solo, non preoccupandomi del percorso, penso a rimanere in piedi, a non inciampare. Ma quanti passi mancano all’arrivo? Non ne sono certo, pare che non sia distante, ma la prospettiva è un po’ distorta e mi sfuggono le proporzioni tra le cose e, per questo, dispero di arrivare. Nel frattempo percorro spazi sempre più ampi, mi perdo nell’interminato e mi convinco di non poter arrivare.
Beh, allora quanti passi mancano all’arrivo? Pochi in realtà, ma sono in salita, la pendenza è scoraggiante e io sono pigro, penso che farò una sosta, del resto sto per arrivare.
Quanti passi mancano dunque? Cento, mille, ottomilaventisette, o forse solo dieci, c’è una curva a gomito e non riesco a realizzare, non comprendo se mi avvicino o fatalmente mi allontano, passo dopo passo, velocizzando e rallentando, allungando o accorciando la falcata, forse continuo a girare in tondo.
Quanti passi mancano infine? Nessuno, sono arrivato.

I miei passi, lunghi o corti che siano, li ho sempre raccontati, su riviste on-line, su blog personali (è il caso delle prime righe), su video in pagine Facebook, declinandoli come percorsi o come possibilità, anche quella di tornare indietro, fatti su strade giuste o sbagliate, sfiancanti o ricostituenti. I miei passi sono metafora e realtà, il mezzo con cui misuro i miei progressi e le mie deviazioni.

Mentre cammino penso e lo faccio in libertà, senza vincoli, isolato dentro i rumori del mare che spesso mi ritrovo di fianco, o anche nella confusione di chiacchiere e rumori di una città, se cammino da solo sento i miei pensieri. Il mio pensare che certifica la mia presenza nel mondo, la mia autoanalisi, il mio percorrere i meandri del mio inconscio, che si rivelano accessibili quando sono in questo stato di meditazione. Io cammino, dunque esisto.

Ma cammino e guardo lo scorrere delle cose intorno a me, non fisso i miei occhi sulle mie scarpe o sugli ostacoli, penso ma rimango vigile e aperto all’incontro. C’è stato un tempo, e ne ho scritto altrove, in cui camminavo alla ricerca di un evento miracoloso che cambiasse la mia vita, senza rendermi conto che spostarmi camminando mi ha portato altrove e, forse, il miracolo l’ho trovato.

Cammino e penso, cammino e guardo, cammino e respiro e respirando trasformo il mio esistere. Camminando, infine, invecchio, mi avvicino lentamente alla mia metà e forse invecchiando rallentiamo proprio per allontanarci dalla conclusione e le conclusioni sono sono banali.

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