Cercando su Google la voce mantenere, appare una definizione che distingue tra un uso transitivo del verbo con il significato di tenere a lungo, far durare e rimanere inalterato, conservare in una certa condizione, tenere fede a un patto, rispettare, provvedere dei mezzi necessari per vivere, sostenere economicamente, e un uso riflessivo declinato, tra le altre voci, come rimanere in una certa condizione.

Prendendo spunto da quest’ultima accezione cerco di spiegarne il senso muovendomi tra l’esperienza personale e il percepito sociale.

Cosa si intenda con rimanere in una certa condizione da un punto di vista fisico o meccanico è abbastanza ovvio: posta la stabilità di alcune condizioni la materia manterrà il suo stato di moto o di inerzia; ma dal punto di vista psicologico e sociale le cose cambiano, perché l’uomo a differenza della materia può scegliere di rimanere in una certa condizione o meno.

Mantenere una posizione, a dispetto di condizioni fisiche estremamente disagevoli, come in occasione di uno sciopero della fame per ottenere qualcosa che si ritenga profondamente giusto, è qualcosa che si vede frequentemente e ci dice che la volontà può in qualche modo ribellarsi alle esigenze fisiche, quasi avesse un potenziale energetico tale da sovvertire le regole della sopravvivenza, ma l’esistenza delle persone volubili dimostra il contrario.

Lo svolgimento della vita di ognuno di noi infatti ci dimostra che talvolta ci ostiniamo a rimanere in una condizione sfavorevole e altre volte ci sottraiamo da una condizione che sicuramente ci farebbe stare bene. Schopenhauer, a tal proposito, diceva approssimativamente che la vita somiglia un pendolo che oscilla tra dolore, dovuto alla permanenza di uno stato di desiderio che difficilmente si può realizzare, e noia, che è la reazione successiva e immediata al soddisfacimento del desiderio, sottolineando la fragilità della condizione umana che segue dinamiche che niente hanno a che fare con la razionalità che, invece, nell’universo hegeliano reggeva tutto.

Quindi perché alcune condizioni non desiderabili sono mantenute e altre desiderabili, sono estremamente volatili? In un certo senso questa forma di masochismo sociale è retaggio di una cultura che si fonda sulla dinamica tra peccato e senso di colpa, che è propria del cattolicesimo che sta alla base delle culture occidentali, e che identifica il piacere con la tendenza verso il male e il sacrificio come la premessa alla beatitudine, almeno se si vuole dare retta a Nietzsche, ma è anche una tendenza che è stata problematizzata oltremisura nel contesto di complessità sociale che caratterizza la nostra contemporaneità. In un mondo fondato sulla tradizione il mantenimento della propria condizione era ciò su cui proprio la tradizione si fonda, ma possiamo ancora applicare soluzioni vecchie a problemi nuovi? Che fosse semplice, ancorché costrittivo, vivere in un mondo in cui tutto era delineato in modo preciso e a cui dovevi adeguarti oppure ribellarti prendendo la direzione opposta, è palese, ma è possibile pensare che se rinunciassimo a questa complicata libertà riusciremmo ad adeguarci all’idea di mantenere la posizione che la società ha scelto per noi?

E poi, siamo veramente liberi di determinare il nostro posto nel mondo?

Le risposte a queste domande, ovviamente, non è semplice, perché richiederebbe una generalizzazione non sempre possibile, una generalizzazione che fa torto ad alcune persone e ad alcuni fatti, ma il concetto stesso di ricerca sociologia procede per generalizzazioni il più possibile condivisibili.

Allora cosa facciamo?

Dobbiamo spostarci dal piano sociale e collettivo a quello individuale, o meglio ancora dalla realtà sociale a quella che ognuno di noi percepisce.

Berkeley è famoso per il motto “Esse est percipi”, l’essere è ciò che è percepito , e se questo pensiero sembrerebbe una forzatura se lo si considera alla lettera, è vero che in una società dell’immagine diffusa e condivisa è la percezione quella che conta. Inoltre a livello individuale, la mia percezione personale è alla fine decisiva per la valutazione della mia condotta di vita.

Torniamo allora alla domanda iniziale? Perché manteniamo condizioni gravose e sorvoliamo su quelle che ci fanno stare bene? È sempre una questione di percezione, ovvero lo scontro tra la percezione sociale, la percezione dell’altro da noi, e la percezione del nostro io, scontro in cui spesso si fa prevalere la prima, come già ci diceva Pirandello, in una dinamica che non può che condurci a comportamenti nevrotici e a un malessere che ci appare, erroneamente, necessario.

Io non ho una soluzione che ci possa condurre verso una maggiore serenità, ma ho capito, ed è una banalità, che il processo di straniamento e di alienazione che stiamo vivendo grazie alla rivoluzione informatica, è un processo infelice ma attraente, illusorio e deludente, un processo da consapevolizzare perché si possa procedere verso un cambio di paradigma che oggi appare più necessario che mai.

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