
E’ impressionante il respiro dell’oceano!
Impone il suo silenzio immane, dilata il senso di precarietà umana davanti alla potenza del creato,
mi ricorda quel saggio di Tabucchi dentro al quale percepii una certa vicinanza tra Leopardi e Pessoa, quel ‘blu della paura’ che avvicina al mare il cielo, soprattutto qui a Lisbona, infinite lontananze, mentre le basole decorate della Rua Augusta brillano di vento e salsedine, i miei passi sono soffiati via come foglie di jacaranda
i negozi non hanno ancora aperto i battenti, e i gabbiani, ‘gaivota’ li chiamano qui, volteggiano nella menzogna del sole, le loro ombre alate riescono a scivolare in dissolvenza lungo i muri scrostati, sotto una torma di nubi oceaniche,
mi sembra di percorrere il set di “Lisbon Story” di Wenders, quella storia che poi storia non è – è malinconia dell’incertezza, come nel fado e nella magia lirica dei Madredeus, l’azzurro opaco dell’inquietudine, e gli occhi sono ancora il solo luogo in cui è riflessa l’anima, così scriveva Saramago.
Lisbona è lo spazio indefinito in cui cercare la luce dell’esistenza, o almeno la profondità dell’anima, la curva della verità che s’apre al mareggiare come da un ‘miradouro’, in bilico tra desiderio e paura, tra sogno e disillusione, tutto è labile, caduco, sommesso, tristezza del visibile, luce nostalgia che mugghia e si mescola al grigio di certe foschie,
degli intonaci esausti di mille terremoti per adornare la città, e gli antiquari del Bairro o le taverne dell’Alfama, detriti frantumi cocci di luce antica, merletti imponderabili, scialbe trine – azulejos dietro esatti scorci atlantici, in angoli dimessi, sfiorati da barlumi rappresi dopo l’oscurità del temporale.
Pessoa se ne sta ancora seduto lì fuori, ai tavoli della ‘Brasileira”, tra questi palazzi non si scorge l’Oceano, inquieto, ambiguo specchio dell’interiorità umana, dove l’orizzonte tumultua e ogni risposta appare come realmente è: incerta.
La Igreja do Carmo ha un portale gotico, e dalle sue navate in pietra, dalle absidi nude, dalle volte protese verso promesse di cielo, un cielo moresco e bizzoso prelude alle note dei Madredeus, di “Guitarra”, che accompagni ogni passeggero senza meta in un precoce crepuscolo d’autunno,
la voce di Teresa Salgueiro echeggia dentro abissi inesprimibili, allevia il peso di certe penombre, ma d’altronde, “vivere non è pensare”: anche vagare, a volte, lo è, e fluttuare, ed esistere senza stagioni, ogni libertà crea solitudini, cosmogonie e dubbio.
Ma questo dovrebbe essere il destino consapevole di ogni individuo – un naviglio dentro l’immensità del mare, eppure non dovremmo far altro che navigare, orientandoci con le costellazioni, indifferenti a ogni deriva.

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