Calda giornata di ottobre, lo sfondo è il mare noi siamo le comparse, i protagonisti sono loro: ragazzi africani e bengalesi. Siamo all’hotspot di Porto Empedocle, oggi è particolarmente pieno, i ragazzi dentro sono seduti per terra, stanchi, impauriti, in attesa che qualcuno chiami il loro nome. Negli occhi l’incertezza. Fuori comincia la calca. Referenti e operatori di comunità o di qualsivoglia servizio gravitante intorno all’immigrazione si ammassano di fronte ai cancelli in attesa che ad ognuno di loro venga affidato qualche ragazzo. La scena è surreale, superficialmente potrebbe essere comparata all’apertura di un nuovo locale alla moda o al lancio sul mercato dell’ultimo smartphone, con le code che si creano dietro le porte per poter essere i primi. C’è tempo per scambiare quattro chiacchiere tra noi operatori e così scoprire che ci sono referenti da tutto il meridione, chi viene da Cosenza, chi da Campobasso, chi da Napoli. Fuori il clima è da camerata, si scherza e si commenta l’organizzazione e i metodi con cui verranno suddivisi gli immigrati. Dentro c’è silenzio. A parlare sono solo mediatori, poliziotti, personale della Croce Rossa, in un continuo andirivieni tra i capannoni industriali e il piazzale dove siedono i ragazzi. Pochi metri e un cancello sono gli ultimi scogli che separano i sopravvissuti agli sbarchi avvenuti negli ultimi giorni dal mondo occidentale. Quel cancello che si richiude ma non nasconde la vista, proiettando lo spettatore verso una sorta di perverso zoo umano. Nell’anno 2025 sino ad oggi, sono sbarcati più di 60.000 migranti (dati del ministro dell’interno), mentre, secondo i dati dell’ OIM sono più di mille quelli che non ce l’hanno fatta. Dispersi, scomparsi, morti in mare. Ma c’è chi ha pensato anche a loro. Una Cooperativa della nostra terra di Sicilia ha raccolto i barconi arenati di quei migranti, di quei tanti giovani dagli occhi incerti che hanno trovato la strada sbarrata al loro futuro. Quelli per cui non si potranno mai costruire certezze, né incertezze mascherate da certezze come tutte quelle promesse di trovare una vita migliore. C’è chi ha raccolto il legno di queste barche, chiedendone il dissequestro. Questo legno che porta con sé le grida di dolore e la paura del mare provata anche dai sopravvissuti, è un legno speciale perché porta un grande messaggio fatto vibrare dalle mani sagge e delicate di un liutaio che lo ha trasformato in violino, viola, violoncello e chitarra separando il legno duro da quello di conifere più adatto all’acustica di questi strumenti ad arco, usando una tecnica del ‘500 che vede 5 strisce di legno ripiegate al vapore e poi asciugate. In tal modo si è avviato un cammino di rinascita non solo per il legno ma anche per coloro che ci hanno lavorato e cioè per i ragazzi vulnerabili e profughi della falegnameria facente capo a questa straordinaria cooperativa. Così i ragazzi che non sono riusciti ad attraversare il mare sono diventati musica! Nessuno sentirà mai la loro voce ma potrà udire il dolce e melodioso canto di un violino. Il loro nome è inciso su questi strumenti con la certezza che non verranno mai dimenticati.

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