
Due brevi premesse sono necessarie per introdurre il tema. La prima di natura strettamente etimologica: la parola “icona” deriva dal termine greco antico εἰκών -όνος che può essere tradotto con il termine “immagine”. Nel nostro caso “immagine sacra” che rappresenta il Cristo, la Vergine, uno o più santi, dipinta per lo più su tavoletta di legno, spesso decorata d’oro, argento e pietre preziose, tipica dell’arte bizantina e, in seguito, di quella russa e balcanica.
La seconda premessa è di natura storica e ci riconduce al Secondo Concilio di Nicea del 787 dopo Cristo. Qui si dà un fondamento teologico e spirituale all’arte sacra e, in particolar modo, alle icone intese come immagini di natura spirituale.
Sappiamo che l’icona nasce nei primi secoli del cristianesimo per testimoniare lo splendore di Dio fatto uomo e la dignità dell’uomo creato a immagine e somiglianza del suo Creatore.
L’icona viene immediatamente intesa dai primi padri della Chiesa non come una semplice immagine, ma come luogo della Presenza Divina, spazio in cui avviene una rivelazione del Divino. Considerazione che pone l’opera d’arte e colui che la contempla su un punto di confine insidioso tra il riconoscimento della funzione mistica dell’immagine e l’idolatria dell’immagine stessa. Tuttavia la forma umana che Dio ha scelto di assumere in Gesù Cristo fornisce all’artista la possibilità di rappresentarlo come tale senza cadere nell’errore teologico di ricondurre una forma infinita, Dio stesso, in una forma finita, l’uomo e la sua immagine.
L’icona, dunque, si rivela come una estensione dell’incarnazione divina.
Non è inappropriato sottolineare come l’arte delle icone abbia subito a più riprese dei veri e propri attacchi persecutori in anni ben più recenti rispetto agli attacchi iconoclasti dei primi secoli dopo Cristo. Dal 1917 e per quasi i settant’anni successivi, in Unione Sovietica, l’ortodossia e la tradizione dell’icona furono costrette a vivere in una condizione di clandestinità. Nonostante la persecuzione, tuttavia, la tradizione iconografica non ha mai cessato del tutto la sua attività.
Il monte Athos in Grecia resta oggi uno dei luoghi più significativi in tal senso con dei veri e propri “sancta sanctorum” che custodiscono capolavori dell’iconografia di ogni tempo.
Se per il filosofo greco Platone l’opera d’arte rappresentava un allontanamento dal vero ideale, in quanto imitazione di una imitazione, con le icone ci troviamo dinanzi a qualcosa di diametralmente opposto. Il compito dell’arte iconografica ribalta infatti il punto di vista e, in virtù delle sue caratteristiche, assume il ruolo di condurre l’uomo dalla visione sensibile a quella Ideale.
Date le premesse appare chiaro che l’icona non sia e non possa essere qualcosa di meramente estetico o di riconducibile e valutabile secondo un canone di bellezza tradizionale. La bellezza, il valore dell’icona risiede infatti nella sua funzione simbolica e liturgica, nel suo saperci condurre “oltre” la rappresentazione.
Per rendere possibile questo “salto” dal visibile all’invisibile, gli iconografi adottano con perizia la sopra citata “prospettiva capovolta”.
La rinuncia ad una terza dimensione spaziale, anche in epoche successive alla scoperta della prospettiva nell’arte pittorica, appare come una scelta irrinunciabile per non sviare l’attenzione ed i sensi di chi osserva verso una qualsivoglia idea di veridicità terrena dell’immagine. L’apparente semplicità dei tratti pittorici rimanda non certo all’imperizia dell’artista, ma ad una precisa volontà di raggiungere un fine ben preciso.
Scrive Pavel Florenskij nel suo saggio La prospettiva rovesciata: “Ma qui succede una cosa strana: questa «imperizia» nel disegno, che apparentemente dovrebbe indignare qualsiasi osservatore che “abbia capito l’evidente assurdità di una simile raffigurazione, al contrario non desta alcun senso di fastidio, ma viene anzi percepita come qualcosa di necessario, e addirittura piace”.
Dunque, secondo Florenskij, si trova più verità laddove appare meno perfezione tecnica e prospettica. Perché? Il motivo è piuttosto semplice: una icona di arte sacra non intende e non deve rappresentare ciò che è realmente, ma deve essere una guida verso ciò che non è visibile.
Tecnicamente il fondo da cui parte ogni icona è l’oro, il materiale puro per eccellenza. Simbolo della luce e luogo dove la rivelazione diventa possibile. Nello spazio finito di una tavola la mano dell’incisore, spesso e non a caso anonima, raccoglie colori, frammenti di senso, simboli, volti, momenti tratti dalle sacre scritture per restituire una sintesi che avrà il compito di diventare guida di chi la contemplerà.
In questo senso l’iconografia sacra potrebbe apparire in netto anticipo, pur non avendone l’intenzione e certamente con obiettivi diversi, rispetto alle correnti d’arte contemporanea che mettono in gioco a vario titolo l’osservatore affidandogli il compito di cercare e dare un senso all’opera d’arte stessa.
Concludo ricordando ancora Pavel Florenskij che nel suo saggio “Le porte regali” scrive: “L’icona è sempre o più grande di se stessa, quando è una visione celeste, o è meno di se stessa, se essa non apre a una coscienza il mondo soprannaturale, e non si può chiamare altro che una tavola dipinta”.
Ecco perché l’icona è anzi tutto un’esperienza di fede, di epifania del Sacro nel mondo, relazione diretta con l’ineffabile e con il totalmente altro.