Il terzo atto della nostra trilogia risuona di triste attualità. Il tema della distruzione pare quanto mai accordarsi con i tempi e con gli anni che stiamo vivendo.
Il panorama della geopolitica confonde e spaura i cuori; la cronaca dei quotidiani sembra sovrabbondare di atrocità assortite. Perché? Perché la distruzione, la voglia di abbattere hanno spesso la meglio sul desiderio di costruire o custodire qualcosa o qualcuno?
La risposta è venuta da sola in una spiaggia libera che si affaccia sul Mediterraneo. Uno di quei luoghi che resistono a mala pena all’invasione geometrica di sdraio e lettini per lasciare posto ad anarchiche borse frigo, teli mare e bagnanti che trasudano, in tutti i sensi, umanità.
Tra loro un bambino. Bellissimo come solo i bambini sanno essere. Lo osservo mentre è concentratissimo nell’edificio di un suo castello di sabbia. È immerso nel suo lavoro, ma non sorride. Una torre, poi un’altra e ancora un’altra. I muri di recinzione sono appena abbozzati ma non mancano di definire il suo edificio. Il bambino sembra finalmente soddisfatto e assorto.
Ma è solo un attimo, perché poi, finalmente, il sorriso spunta sul piccolo viso e il corpo si lancia con naturalezza in avanti. Un calcio bene assestato e giù una torre e una risata! Un colpo di mano e giù l’altro pinnacolo mentre la felicità si dipinge sempre di più nel volto del piccino. Pochi secondi e il tempo quieto della costruzione si è trasformato nel parossismo gioioso della distruzione.
Voi direte, a ragion veduta, che si trattava solo di un castello di sabbia. Di qualcosa che si erige perché poi si possa appunto distruggere. Ma il punto che mi ha colpito è un altro. Nella dissoluzione del castello il bambino era veramente felice. Esercitava una sorta di onnipotenza che lo rendeva persino euforico. “Il castello l’ho fatto io e lo distruggo io” sembrava dire con uno sguardo profondo immerso in un corpicino ancora tanto minuto.
Così mi sono venuti in mente, prima ancora dei potenti che guidano la Terra, i tanti capi, piccoli e molto piccoli, che godono enormemente nel rendere la vita un inferno alla gente che gravita loro intorno. I leader “prêt-à-porter” che agitano il loro potere non per intessere relazioni e creare benessere ma per dimostrare che le sorti di altre persone sono legate a loro. Ho pensato a quanti di noi potrebbero fare del bene e, invece, seminano odio, rancore e tanto malessere.
Il bambino che ha demolito il castello è, dunque, una parte di noi?
La distruzione, però, ha anche tante declinazioni positive. Si distrugge e si butta per creare spazio sia fisico che mentale. Attraverso essa ci possiamo scuotere dall’inerzia, spezzare catene invisibili e, magari, cercare nuove vie per le nostre vite. Talvolta anche la devastazione apre possibilità. Richiede coraggio, impegno e visione del futuro. Quando è sorella della costruzione, la distruzione conserva aspetti di sacralità.
Proviamo a raccontare la distruzione attraverso la costruzione del nostro numero di settembre. Buona lettura.