
Il nuovo millennio è stato inaugurato da uno dei più celebri eventi distruttivi della storia recente: il crollo delle Torri Gemelle, in quel fatidico 9/11 che proprio in questi giorni ci capita di ricordare. Si tratta di una vicenda drammatica e senza dubbio opaca, oggetto di speculazioni e teorie cospirazioniste che, sebbene non provino nulla, sollevano altresì molteplici quesiti sulle modalità e le responsabilità dell’attacco.
Tuttavia, nemmeno le ipotesi più fantasmagoriche sulle cause dell’accaduto riescono a pareggiare l’importanza e il grado di interesse suscitato dall’evento in sé e dalla sua portata. Qualora, infatti, decidessimo di sottrargli ogni valenza politica, ogni legittimo interrogativo, congettura ed isteria, rimarrebbe soltanto lo stupore: immagini potentissime e indelebili, che ancora oggi costringono a rimanere a bocca aperta.
C’è qualcosa in quelle immagini che fa davvero impressione, qualcosa di surreale e viscerale al contempo, che porta a interrogarsi piuttosto su cosa possa aver scatenato in noi quell’episodio; su quali possano essere state, verosimilmente, le conseguenze sul piano della psicologia delle masse.
Per affrontare questi interrogativi dobbiamo innanzitutto provare a capire cosa simboleggiavano i due grattacieli, ancor prima della loro distruzione.
Secondo il sociologo francese Jean Baudrillard, le Torri Gemelle erano innanzitutto la rappresentazione concreta della fine di un sistema – ovvero la macchina finanziaria, tecnologica e mediatica occidentale – basato sull’originalità, la concorrenza e la competizione. Con le sue stesse parole, che possiamo trovare nel saggio Miti fatali:
“Le due torri del World Trade Center sono il segno visibile della chiusura d’un sistema nella vertigine del raddoppiamento, mentre gli altri grattacieli sono ciascuno il momento originale di un sistema che si supera continuamente nella crisi e la sfida”.
In questo caso, com’è evidente, non c’è alcuna mania del sorpasso; nessuna tensione, nessuna volontà di arrivare più in alto, ma soltanto una duplicazione (le torri erano infatti identiche). Ed è proprio in questo passaggio che consiste, secondo Baudrillard, l’atto fondativo del simbolo e, contestualmente, il venir meno del referente:
“Affinché il segno sia puro, occorre che si raddoppi in se stesso: è il raddoppiamento del segno a mettere veramente fine a ciò che esso designa. Tutto Andy Wharol è qui: le repliche moltiplicate del viso di Marylin sono allo stesso tempo la morte dell’originale e la fine della rappresentazione.”
Già quando erano in piedi, insomma, le Torri Gemelle rappresentavano la crisi e lo svuotamento di un’intera civiltà, proprio in ragione di questa mancanza di slancio e della tremenda impotenza da esse emanata. La loro distruzione, che secondo Baudrillard somiglia moltissimo a un suicidio, è stato soltanto l’accidente che ha reso manifesta la fragilità del sistema.
Da quell’11 Settembre di ventiquattro anni fa, infatti, la percezione della nostra sicurezza, in quanto occidentali, oltre che dell’onnipotenza del nostro campione americano, è profondamente mutata.
Ci sentiamo senz’altro più esposti, come se fossimo ripiombati improvvisamente nella Storia con la S maiuscola, con tutti i suoi pericoli e le sue brutture.
Appena varcate le soglie del Duemila, quanto avevano predetto molti profeti di sventura si stava compiendo sotto gli occhi di tutti, e si trattava, forse, soltanto dell’inizio di un processo che sta portando alle sue estreme conseguenze in questi ultimissimi anni, mesi, settimane. La percezione – è il caso di ribadirlo – è quella di un Occidente ormai insufficiente, anacronistico, esaurito… e dunque al collasso.
Ma tutto ciò, in fondo, non stupisce. Non è niente di nuovo. Ciò che invece sorprende è scoprire, rispetto a questo rovinoso processo, una segreta complicità non dei supposti “nemici del sistema” –anarchia, fondamentalismo islamico, Russia, Cina, o chi per loro – ma degli stessi occidentali, di noi cittadini “funzionali” che ne facciamo parte. Ciò risulta evidente se si guarda alle proteste continue e capillari che infiammano l’Europa, alle premature cadute dei governi, agli attentati a politici e attivisti d’oltreoceano, al boicottaggio dei prodotti statunitensi e israeliani, e così via.
In un altro saggio, intitolato Lo spirito del terrorismo, Baudrillard parla infatti di un “desiderio maligno” che “si colloca nel cuore stesso di coloro che [in riferimento al sistema occidentale] ne condividono i benefici” e che, a suo dire, era rintracciabile già a partire da quell’11 Settembre:
“Sono loro che l’hanno fatto [i terroristi], ma siamo noi che l’abbiamo voluto”, arriva addirittura a sostenere nello stesso libro.
Sono dichiarazioni tanto forti quanto difficili da sconfessare.
In ogni caso, e per concludere, questa supposta complicità non costituisce nemmeno l’implicazione più urgente e sconcertante. La vera distruzione, la più silente e perniciosa, è quella che sta avvenendo ai danni della realtà e in favore del segno vuoto, “il simulacro”, come lo chiamava Baudrillard. Andy Wharol e le Torri Gemelle, in questo senso, sono stati soltanto un’avvisaglia: quando oggi, sui social, scrolliamo senza pensarci da un terrificante video di Gaza al reel successivo (magari un balletto), è la prova che il referente è davvero morto, che siamo ormai del tutto anestetizzati a ciò che quelle immagini significano, al fatto che il massacro sta avvenendo davvero. E questo vale per tutti i contenuti che guardiamo online, che ormai costituiscono la maggior parte degli stimoli a cui siamo quotidianamente esposti.
Il reale si sta pian piano trasformando in una zona periferica della vita, mentre il digitale permea sempre di più ogni suo aspetto.
Diventa così imperativo riaccostarsi a ciò a cui quelle immagini rimandano indissolubilmente: le sofferenze, le responsabilità e le tracce di una storia che non possiamo trasformare in puro spettacolo. Bisogna svegliarsi dal torpore mediatico, mantenere vivo lo spirito critico e ricostruire legami di responsabilità e cura.