Eppure, c’era qualcosa laggiù, in quel fossato, che tratteneva a fatica il nostro chiasso bambino.

Dall’alto scorgevamo quel campanile, la forma inequivocabile d’una chiesa antica, si trattava di passare tra gli asini e poi ancora giù, sempre di nascosto, con uno strano senso di vertigine frammisto a quel disobbediente calpestio d’ogni divieto.

Quel fruscio tra sterpi eravamo noi, i rotolanti detriti pure.

La scoperta dell’ossame che affiorava da certi cumuli ricordo ci ammutolì, più della bellezza inattesa del portale affrescato.

Risalimmo e d’altronde: a chi e cosa avremmo potuto raccontare d’aver scoperto? O d’aver violato o dissacrato?

Tornammo, stavolta dall’ingresso principale – se così possiamo chiamarlo – con qualche adulto.

Mentre loro cianciavano di leoni stilofori e di ritrovamenti, di Gagini e di Della Robbia, di nicchie gotiche e di passaggi francigeni, noi ci eravamo avventurati nuovamente a scavare ossa.

E da lì avevamo iniziato una battaglia di tibie e omeri, con clangore medioevale e irriverenza crociata, con schiamazzi trionfali e quella sottile gioia del proibito.

Come quel rintanarsi tachicardico dentro gli ipogei, tra la verzura non ancora ripulita dagli asinelli giardinieri, per un giro di nascondino o di caccia al tesoro.

Anni dopo, in quell’interregno di cicale, tra ombre incolte e assidui reperti, avevo raggiunto il fotografo Giuseppe Leone, armato della sua inseparabile Leica, deferentemente accompagnato da sparute figure paesane in fondo a quel sacrario.

Lui per me era il padre di Luca, ma solo in quel momento compresi – non appieno – la sua grandezza in quel luogo magico.

Le apnee di ammirazione e d’incanto sono maturate lentamente, nel corso delle mie visite isolate. Una delle più recenti, insieme a Luigi Scotto, ex ambasciatore italiano in Tanzania, col cancello aperto dal mio amico Antonio Pico – ma era già il 2017.

Proprio con Antonio avevamo preso l’abitudine di chiacchierare – e lo facciamo tutt’ora – di storie legate al sito, a certe deduzioni, a talune scoperte, e a piccoli ritrovamenti.

L’incisione all’interno della torre normanna, la resistenza della navata di destra al terribile sisma del 1693, le ipotesi del fonte battesimale scavato tra le pietre, e alcuni cocci di ceramica invetriata ritrovati grazie a scavi più recenti.

Antonio non è uno storico, ma semplicemente un appassionato – come me – alle ‘cose’ del suo paese. Collabora con la sovrintendenza, e offre umanamente la sua dedizione.

Allora ho chiesto a Mario Abbotto circa l’eventualità di un’altra opera di Della Robbia all’interno della chiesa, visto il ritrovameno di quei cocci.

“La preziosa ceramica invetriata di Andrea Della Robbia era stata posta sull’attuale altare dalla Confraternita dei Pecorai. Il rinvenimento dei cocci non mi meraviglia, perchè anche la ceramica subì dei danni. Per esempio, la lunetta superiore presenta degli spigoli oggi riempiti da materiale che dovrebbe essere gesso o pietra di Santa Barbara, mentre invece avrebbero dovuto essere anch’essi dello stesso materiale dell’opera”.

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