
Oggi, il termine “raccolta” non evoca più soltanto contadini romanticamente chini su spighe di grano, in spossanti giornate di giugno, oggetti di antiquariato e figurine di calciatori.
C’è, per esempio, anche la raccolta di cibo e beni di prima necessità che, neanche due settimane fa, sono stati caricati sulla Madleen, un’imbarcazione salpata il 1° giugno alla volta di Gaza, da San Giovanni li Cuti, Catania, per “rompere simbolicamente l’assedio nella Striscia” – citando a memoria le parole di Greta Thunberg, che fa parte dell’equipaggio assieme a 11 membri della ONG Freedom Flotilla.
Ad ogni modo, augurandomi che la missione della Madleen possa, se non altro, gettare un’ulteriore luce sulle insufficienze dei governi di tutto il mondo rispetto alla drammatica situazione di Gaza, in questo articolo vorrei tuttavia parlare d’altro. Vorrei infatti affrontare un tema legato a un altro aspetto di questa nostra bizzarra contemporaneità: la digitalizzazione. In particolare, il fenomeno, terribilmente opaco e mai discusso quanto meriterebbe, della raccolta dei nostri dati personali da parte di siti, social network e applicazioni.
In questo momento, ciascuno di noi sta seduto su una miniera d’oro, senza saperlo. Questa miniera diventa più grande – il suo contenuto più abbondante e prezioso – ogni giorno che passa, man mano che consumiamo, facciamo ricerche, usiamo i social, parliamo ad alta voce vicino a un dispositivo…
La ricchezza a cui mi riferisco coincide sostanzialmente, benché possa sembrare bizzarro, con le nostre informazioni; quelle che ci appartengono (età, nazionalità, sesso biologico, orientamento sessuale) e quelle che produciamo semplicemente vivendo (che posti abbiamo visitato, quale prodotto abbiamo acquistato, che pagina abbiamo appena seguito su Instagram).
Questo gigantesco universo di dati, però, per quanto inestimabile, non ci appartiene davvero. Non è di nostra proprietà. Non siamo noi, infatti, a raccogliere queste informazioni, ad archiviarle, a dar loro un ordine. Sono piuttosto i nostri motori di ricerca, i siti che visitiamo e che ci chiedono di accettare i “cookie”, le piattaforme di e-commerce, le applicazioni di sistema del nostro cellulare e del nostro pc, quelle che scarichiamo, i social network che utilizziamo, i servizi bancari a cui ci affidiamo. Sono loro a raccogliere, col nostro cieco consenso, quest’enorme mole di informazioni e a riutilizzarla per una serie di scopi.
Fra questi, c’è senz’altro anche quello di venire incontro alle esigenze dell’utente, migliorando l’esperienza di utilizzo di suddette piattaforme. Ma è solo la punta dell’iceberg.
L’obiettivo vero, ben più oscuro, è l’esercizio, da parte di una manciata di colossi digitali – prevalentemente americani ma non solo – di una specie di soft-power su noi comuni cittadini: ci rendono dipendenti dai loro spazi virtuali, in una sorta di feudalesimo digitale; ci suggeriscono cosa comprare, modellando offerte su misura; ci incasellano e costringono in bolle informative e algoritmiche precise, testando e prevedendo i nostri comportamenti.
L’ultima moda, infine, è addestrare le intelligenze artificiali generative, che queste Big Tech si preparano a rilasciare sul mercato, proprio a partire dai dati e dai contenuti che generiamo utilizzando le loro piattaforme social e di messagistica. È quanto si è recentemente proposta di fare Meta, l’azienda di Zuckerberg, adesso anche con l’aiuto del suo nuovissimo chatbot, MetaAi, la cui presenza, tutt’altro che richiesta, avrete sicuramente notato in questi ultimi mesi su Whatsapp, Instagram e Messenger.
C’è ovviamente della colpevolezza nella mancanza di trasparenza e di scrupoli mostrata da queste aziende e dai loro CEO, ma noi tutti, acritici consumatori occidentali, costituiamo l’altra faccia del problema. Siamo infatti rei del nostro incurabile qualunquismo e lassismo, che ci rende ciechi e impotenti di fronte ai cambiamenti epocali che ci attraversano e alle manovre surrettizie di cui finiamo per essere, puntualmente, le incoscienti pedine.
E non bastano il GDPR (General Data Protection Regulation) e le altre leggi europee, peraltro calpestate volentieri da alcuni dei colossi digitali menzionati, a tutelarci e a restituirci quel potere che il solo fatto di generare dati, come abbiamo poc’anzi suggerito, dovrebbe comportare.
Non è nuova l’idea, presentata ad esempio in “The Zero Dollar Car” di John Ellis, di considerare la nostra privacy come un capitale; i nostri dati non come un sottoprodotto da tenere nascosto, ma piuttosto come una risorsa di cui prendere coscienza, impossessarci e, perché no, perfino da poter scambiare, a nostra discrezione, con denaro, beni e servizi di cui abbiamo bisogno.
A partire da questo presupposto, molte strade concrete – il cui approfondimento richiederebbe un articolo dedicato – sembrano percorribili. Penso, giusto per citare gli esempi più conosciuti, alla collettivizzazione dei nostri dati tramite sistemi di blockchain e alla possibilità di istituire un reddito di base universale su questa base. Ma si tratta di passaggi secondari, peraltro discutibili e, in qualunque caso, lontanissimi da una qualsiasi concreta attuazione.
Il punto però è che dovremmo svegliarci, emancipandoci dalla nostra passività e dall’individualismo. Dovremmo smettere di subire il sistema ed elaborare strategie collettive per riprenderci il controllo dei nostri dati e del nostro futuro.