
Non c’è da stare a pensarci troppo: le città sono diventate invivibili. È un fatto evidentissimo.
Inseguendo un’idea di sviluppo illimitato, i nuovi mostri urbani si sono infatti progressivamente trasformati in veri e propri distributori di disservizi. Basti pensare alle problematiche relative alla mobilità, come traffico, parcheggi, inquinamento acustico e atmosferico. Non dimentichiamoci poi dell’altissimo costo della vita, che significa anche povertà e criminalità diffuse; del sovraffollamento, ma allo stesso tempo – paradosso – delle difficoltà nello stabilire relazioni significative; della scarsità di spazi verdi, e si potrebbe andare avanti. La lista è virtualmente infinita.
Si tratta di fattori concreti, molti dei quali legati fra loro da rapporti di causalità diretta, che troppo facilmente si traducono in un peggioramento delle condizioni fisiche, e più spesso psicologiche, degli abitanti. Sono in moltissimi, ormai, a lamentare una sensazione di precarietà, perenne insicurezza, solitudine… di alienazione, in ultima istanza.
E quindi, che cosa ci resta da fare? A mio avviso, la soluzione, per quanto alessandrina, è una soltanto: ricominciare dalle campagne. O meglio, da tutte quelle zone, soprattutto interne e rurali, ma anche costiere, a densità molto bassa o pressoché nulla.
Pensate la bellezza di sottrarsi finalmente alla frenesia delle città e tornare a ritmi più naturali! Svegliarsi al canto del gallo, degli uccellini… o col latrato distante di un cane, piuttosto che con lo scoppiettare di un motorino o con lo sbuffare di mezzi pubblici già gremiti.
Ora: mi rendo conto che questa tematica, sviluppata attraverso questo tipo di retorica, si presti volentieri a banalizzazioni e ricostruzioni ingenuamente pittoresche, fino ad arrivare a veri e propri revival da figli dei fiori. Eppure, è innegabile che un ritorno alla campagna incoraggerebbe abitudini più sane, assieme a pratiche virtuose come il chilometro zero e, in generale, un consumo più consapevole. Inoltre, agli effetti positivi sull’individuo vanno aggiunti quelli sul territorio: contrasto allo spopolamento e alla desertificazione; riqualificazione dei luoghi abbandonati; capillarizzazione delle reti sociali, politiche, economiche, e così via.
Per di più, nemmeno rimanere esclusi dal progresso, poiché si è scelta una vita in campagna, può ormai genuinamente costituire una preoccupazione. E questo soprattutto grazie ai non-più-recentissimi mezzi di comunicazione di massa, e in particolar modo a Internet, che consentono di rimanere aggiornati sulle nuove frontiere, scoperte, tendenze, e sulla situazione geopolitica.
Parlando invece di tecnologie più concrete, non possiamo certo sorvolare sulle entusiasmanti possibilità offerte dall’applicazione delle rinnovabili (come i pannelli fotovoltaici) ai contesti rurali. Queste ultime, infatti, si sono già rivelate un efficace strumento di resilienza energetica e hanno incoraggiato la nascita e la proliferazione, in tutta Europa e nel mondo, di famiglie e comunità che tendono a ritagliarsi un’indipendenza maggiore rispetto a sistemi tradizionali ben consolidati, e non soltanto dal punto di vista energetico. Mi riferisco a eco-villaggi, progetti di cohousing, fattorie, e tutte quelle realtà che, con ammirazione, definirei “laboratoriali” e che sfidano coraggiosamente l’attuale paradigma dell’abitare, proponendo soluzioni innovative per quanto riguarda il rapporto dell’uomo con la natura, lo stare insieme, il darsi regole, il consumare e molti altri aspetti.
Insomma, le campagne non sono affatto escluse dal progresso, al contrario: grazie anche a progetti audaci come quelli sopracitati, hanno tutto il potenziale per diventare le fucine del domani.
E le città? È davvero il caso di liquidarle così?
In effetti, sarebbe una follia concludere questo articolo senza aver speso una singola parola in favore di luoghi che, dopotutto, hanno veramente costituito il cuore dell’immaginario collettivo dell’ultimo secolo, e non solo. Esiste un certo fascino legato alle città ch’è semplicemente ineludibile e che ha a che fare col fermento, la capacità di aggregarsi, l’incubazione e, perché no, anche con la perdizione. C’è senz’altro bisogno di luoghi che non dormono mai, capaci di travolgerci e sconvolgerci, di stimolarci e perfino di turbarci con la loro complessità. Nelle città, peraltro, lo spazio e il tempo tendono a collassare e le “eterotropie” a moltiplicarsi: si tratta di luoghi in cui la regolare prassi semplicemente viene meno, sostituita da rituali e schemi comportamentali completamente diversi. Pensiamo ai cinema, ai musei, alle ville cittadine, ma anche a luoghi sospesi come le stazioni, o, ancora, a veri e propri non-luoghi, come aeroporti e metropolitane.
La sfida consiste, a mio modo di vedere, nel saper infondere un maggiore impulso normativo, di contenimento e direzione, a quella che potremmo definire la giungla urbana, tentando di armonizzare le numerose anime che la percorrono (spesso contrastanti) senza rischiare di sopprimerle. Si dovrebbe contestualmente, e per cominciare, cercare di limitare il traffico e le altre fonti di inquinamento, ampliare le aree verdi, estendere le zone pedonali e le piste ciclabili, mettere in atto strategie di accessibilità inclusiva.
Per realizzare tutto questo, però, è necessario che, a monte, le città guariscano dalla malattia della “brandizzazione” e della competizione, che le spinge a dedicarsi prevalentemente a progetti di facciata e a perdere il focus sull’individuo; mentre gli abitanti, dal canto loro, dovrebbero sforzarsi di vivere la città con maggiore consapevolezza, senso critico e del decoro, emancipandosi da una certa passività che li rende, per grossa parte, dei meri consumatori di prodotti ed esperienze vacui e insignificanti, oltre che, come suggerivamo all’inizio, povere vittime dei numerosi e intollerabili disservizi.
In conclusione, credo che nei prossimi decenni vedremo sempre di più un ritorno alle campagne e un maggiore protagonismo di queste ultime, che considero molto positivamente. Ciononostante, la partita per le città rimane apertissima; devono solo abbandonare un modello che ha già ampiamente mostrato tutte le sue criticità e decidere cosa diventare da grandi. D’altronde, non mancano esempi positivi a cui ispirarsi: Copenaghen, Sydney, Göteborg… per citarne solo alcuni.
Nel frattempo, si potrebbe pensare di invertire il paradigma: vivere in campagna per una salubrità quotidiana, e andare a “villeggiare” in città, alla ricerca di esperienze straordinarie o anche solo per togliersi, ogni tanto, qualche sfizietto.