Ogni città contiene e custodisce i segni del passato, incisi nei suoi muri, nelle sue piazze, nell’oblio dei suoi monumenti e nei silenzi delle sue strade. Segni che, se ascoltati, lasciano trasparire le tracce del presente e, forse, in filigrana i prodromi del futuro. È come se ogni città tacitamente racchiudesse in sé il proprio progetto di vita.

Infatti le città non sono semplicemente insiemi di edifici, strade e spazi funzionali, piuttosto come afferma il filosofo e psicologo James Hillman, intervistato da Carlo Truppi in L’anima dei luoghi, ogni spazio ha un’anima. I luoghi, secondo Hillman, non sono neutri: parlano, raccontano storie e vivono nell’immaginario collettivo. Così, quando attraversiamo una città, non facciamo altro che entrare in contatto con l’anima di quella città, con la memoria che essa conserva e con le sue aspirazioni, spesso non esplicitate, verso il futuro.                                                          Questo senso profondo e intrinseco del luogo ci guida nel capire come le città siano contenitori di esperienze umane, di storie personali e collettive che si mescolano e che continuano a vivere attraverso le sue mura, le sue piazze e i suoi vicoli. Se ascoltiamo, con attenzione, possiamo ancora sentire il battito di questa vita nascosta, il respiro che continua a fare da filo invisibile tra passato, presente e futuro.

Sembra ieri quando bambini, ascoltando le intramontabili favole dei fratelli Grimm, tremavamo al suono di quella voce grave che pennellava il bosco cupo e insidioso, luogo di smarrimento e di abbandono per i nostri amati personaggi. Era il bosco di Biancaneve, di Hansel e Gretel e di Cappuccetto Rosso. Soffrivamo le loro stesse paure e ci aspettavamo sempre il peggio. Finita la storia, poi, assaporavamo il piacere di sentirci al sicuro nella nostra cameretta tra le nostre cose, tra l’affetto dei nostri cari, tra i suoni familiari, nelle strade dove ogni giorno si inventavano nuovi giochi, progettando e costruendo giocattoli rudimentali dalla valenza affettiva e creativa incalcolabile. Alla Valata di Pozzallo si “aspettava” quel vento, tanto caro a noi gente di mare, perché sollevasse in volo sempre nuove forme di aquiloni, costruiti nei pomeriggi sospesi del tempo bambino; oppure guardando dalla finestra del vecchio cantiere di barche, tra l’odore del legname e della colla e negli occhi il grande deserto blu, ci si immaginava impavidi lupi di mare in cerca di tesori; oppure ancora negli angoli delle strade si giocava a nascondino o ci si improvvisava ora negozianti di merci sottratte ai nostri ricordi ora tennisti in gare che avevano il sapore della scoperta, del legame con quegli amici che divenivano ogni giorno compagni di avventure.

Oggi, invece, assistiamo a una metamorfosi dolorosa e radicale. Negli ultimi decenni, la speculazione edilizia ha trasformato lo spazio urbano in merce, ha sfigurato il volto delle città. L’equilibrio tra bellezza, benessere e armonia si è spezzato: il profitto è diventato l’unico valore guida. La città non ha più i suoi abitanti, non ha più i suoi bambini che scorrazzano per le strade: è una città vuota accessibile di giorno, spesso temibile al calar della sera. Il centro storico, un tempo cuore pulsante della comunità, è stato svuotato della sua identità e trasformato in vetrine effimere per uffici, ristoranti e boutique che sopravvivono ancora alla moda degli acquisti on line. Intorno proliferano periferie cresciute in fretta, prive di verde, di piazze e di vita condivisa.

La città non è più in grado di unire i suoi abitanti, ma li discrimina e separa, rendendo plurimi, i luoghi di vita: c’è un luogo per far compere, uno per andare a lavorare, uno per far giocare i bambini, uno per studiare, uno per curarsi e infine uno per invecchiare fino a morire. Tante piccole città in una città che risucchiano ogni alito di vita, ogni linfa vitale che trova nella relazione umana nutrimento indispensabile: si pensi ai tragitti quotidiani, che ancora resistono nei piccoli centri cittadini, dentro i quali s’incontravano ‘a putiara, la vicina di casa, ‘a zia Concetta: persone con le quali era possibile, il giorno dopo, riprendere un racconto o un dialogo interrotto creando familiarità. Oggi la città è attanagliata da una sempre più fitta rete di macchine al suono di allarmanti sirene e persistenti clacson, non vi è posto per vivere il tempo, i desideri, i ricordi e le parole che ci appartengono. Ma “nonostante le forme che lei ha preso diventando come oggi la vediamo”, in ogni città c’è un cuore che batte, una vita dentro che ancora pulsa.

Un palpito sommerso che non si ascolta dietro le porte blindate delle nostre confortevoli case, ma fuori dalle nostre tane isolate, nelle pieghe invisibili dello spazio pubblico, insieme.

Come scriveva Italo Calvino: “Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro… cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa di esistere”.

Come il bambino rappresenta il passato con cui dobbiamo riconciliarci per vivere il presente e immaginare il futuro, allo stesso modo la città può essere la nostra guida, se le prestiamo ascolto. 

Negli ultimi anni, qualcosa si muove. Cresce la consapevolezza ambientale, la voglia di restituire bellezza, colore e umanità ai luoghi. Dai movimenti urbani locali alle esperienze globali di cittadinanza attiva, nascono orti condivisi, piazze riaperte, zone 30, pedonalizzazioni, scuole all’aperto. Si disegnano città lente, inclusive, a misura di chi cammina, di chi ascolta, di chi sogna. Progetti come La città dei bambini, nato a Fano nel 1991, e oggi adottato in decine di comuni italiani, hanno dimostrato che una città pensata per i più piccoli è una città buona per tutti: per gli anziani, per i disabili, per chi viene da molto lontano. Il punto di vista infantile, con la sua semplicità e la sua meraviglia, può diventare davvero la coscienza di una comunità.

Ma cosa significa oggi vivere la città come comunità? Non semplicemente abitarla, attraversarla o consumarla, ma riconoscerla come spazio di relazione, di scambio, di costruzione del bene comune. In questo senso è ancora vivo e necessario il pensiero di Giorgio La Pira, sindaco visionario di Firenze, che in “La diplomazia delle città” considera le città come “ponti di pace” e come luoghi dove si costruisce una fraternità reale, quotidiana, concreta. Per La Pira, la città non è solo infrastruttura o economia: è la casa dell’uomo, spazio dove l’anima collettiva può trovare espressione.

E allora, chi dovrebbe promuovere questa rigenerazione urbana? La risposta non è unica, ma plurale. Spetta alle istituzioni pubbliche, ai sindaci, agli assessori, progettare con uno sguardo lungo e responsabile. Spetta ai cittadini, alle comunità locali, esercitare la partecipazione e la cura. Spetta alle scuole, alle università, agli artisti, formare nuovi sguardi e nuove narrazioni. Spetta ai movimenti sociali e civici creare legami dove la politica è assente. Spetta, infine, a ciascuno di noi scegliere ogni giorno di abitare la città come spazio condiviso, non come rifugio individuale

Come scriveva Tiziano Terzani: “Ogni posto è una miniera, uno specchio del mondo, una finestra sulla vita”. E la città, se la si guarda con occhi di bambino e di poeta, può ancora essere tutto questo. Una miniera, uno specchio, una speranza.

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