
La città è quel luogo che puoi abbracciare in uno sguardo. Non importa quanto grande sia, che storia abbia. L’essenziale è che la città possa essere accolta, percepita, capita da chi la vive. Non importa se sia un paesino arroccato su un monte sperduto o lo skyline di Londra. Una città si vede.
Le province, invece, non si vedono. Men che meno le Regioni. A meno che non siano isole come la Sicilia o la Sardegna. Difficile intuire in uno sguardo cosa sia l’Italia o la Germania. Una città, invece, sì. Si guarda e si sente come fosse un organismo vivo. Civitas, civiltà, città, appunto.
Per questo una città dovrebbe essere qualcosa da amare, della quale prendersi cura con la massima attenzione. Come una parte di noi stessi, cittadini che viviamo i suoi spazi da indigeni o da ospiti, poco importa.
L’artefice di questa idea che ho esposto con parole mie è di un grande uomo, che fu sindaco di Firenze. Sì, ho rubato alcuni concetti a Giorgio La Pira che li presentò nel 1955 nel corso del “Convegno dei Sindaci delle Città capitali del mondo”. Già l’idea di riunire in un solo tavolo queste realtà così distanti meriterebbe un monumento. L’evento si ricorda come “Unire le città per unire le nazioni” e si collocava negli anni della Guerra fredda. L’intento del sindaco santo era quello di lanciare un appello per la pace e stilare un programma che rendesse davvero le città dei luoghi pensati per sviluppare la dignità e la libertà di tutti gli uomini. All’incontro parteciparono 38 sindaci: Parigi, Washington, Mosca, Pechino, Londra, Nuova Dheli, Giacarta, Riyadh e altri luoghi del pianeta Terra.
Da questo incontro scaturirono idee semplici che è possibile riassumere così:
1. In ogni città deve esserci almeno un luogo per pregare: una chiesa, una moschea, un tempio.
2. Ogni località che sia culla di civiltà deve custodire e dare spazio ad un luogo per amare: il riferimento è alla possibilità che tutti possano avere una casa per la propria famiglia.
3. Una città è tale se ha un luogo dove lavorare. La Pira parla di “officina”, ma è chiaro che il senso è quello di avere politiche e luoghi in cui sia possibile lavorare in modo dignitoso.
4. Occorre anche un luogo per pensare e per studiare: ogni centro abitato deve avere le scuole che servono ai suoi abitanti.
5. Infine, serve un luogo in cui guarire, ovvero un ospedale che garantisce sicurezza e salute alle persone.
Cinque punti che ancora oggi restano di bruciante attualità e che, ahinoi, non sembrano essere in alcun punto degli ordini del giorno di moltissimi sindaci dell’epoca a noi contemporanea. Con l’aggravante che una società multietnica come quella odierna pretenderebbe politiche molto attente a questi temi.
Oggi, per fermare questa osservazione solo all’Italia, le città crescono in estensione senza che con esse cresca il numero dei loro abitanti. Talvolta scompaiono per denatalità ed emigrazione, come nel caso di innumerevoli borghi. Ci si oppone alla libertà di culto. Gli alloggi restano inaccessibili ai più poveri, i luoghi di lavoro, per chi un lavoro lo ha, sono spesso raggiungibili solo a prezzo di lunghi spostamenti. E le scuole? Come gli ospedali sembrano vittime della logica degli accorpamenti e dei tagli in ossequio alle severe leggi dell’economia. Insomma, dal 1955 ad oggi qualcosa non è andata per il verso giusto!
Detto ciò, che ne è della città o delle città?
Proviamo a rispondere ponendo questo tema al centro del nostro mensile. Buona lettura a tutti i cittadini del mondo.