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La superficie e la profondità

Antonio Pluchino 14 marzo 2024


Ambientato nell’Italia del 1946, C’è ancora domani è il film rivelazione per incassi e gradimento del 2023. Provare a analizzare il testo forse può aiutare a comprendere perché questo film ha avuto un riscontro di pubblico così ampio.
Vi è proprio all’inizio del film un Piano Sequenza che è il manifesto stilistico e il perno strutturale del film intero. Si tratta di una Carrellata Laterale di Accompagnamento della protagonista, Delia, che cammina svelta su un marciapiede.
Lo sfondo è un alto muro di un edificio sul quale si succedono lungo il percorso del Carrello, diversi personaggi tipici e rappresentativi del periodo storico nel quale si svolge l’intera vicenda. Degli stereotipi che “riconosciamo” e che come quadri viventi vengono abbozzati in successione su una parete.
Questa superficie bidimensionale, sulla quale viene poi affrescata la storia di Delia è come una tela tesa, un fondale che non presenta mai increspature significative, che ci permette solo di riconoscere il “dove” e il “quando” si sviluppa la storia di Delia senza che con questa interagisca in modo determinante tanto da modificarne lo sviluppo e il senso.
Ma anche la storia di Delia sembra svilupparsi su un piano, su una superficie dove gli eventi si succedono con un tono di voce contenuto, una narrazione “leggera” utilizzando lo schema proprio di un genere, la commedia italiana, con personaggi, luoghi e situazioni che sono degli stereotipi del genere: il suocero malato (ma non tanto), scorbutico, volgare e simpaticamente rozzo, che muore proprio nel momento in cui non doveva; i figli maschi, rumorosi e in costante agitazione come mosche che si muovono senza senso in tutte le direzioni, ma innocui; Nino, l’amore giovanile di Delia, gentile, pacatamente malinconico e nostalgico di qualcosa che  non è mai accaduto tra lui e Delia.
Poi vi è il marito, Ivano, inconsistente e senza alcun spessore nella sua caratterizzazione, ma violento.
La Cortellesi tratta però la violenza del marito in un modo molto originale, come se non volesse drammatizzarla e farla diventare il fulcro della narrazione, anzi la attenua con alcuni elementi narrativi.
Innanzitutto la violenza del marito non è la metafora di una violenza diffusa, di un patriarcato radicato nella società, ma è un caso unico, non ve ne è traccia significativa neanche nei personaggi posti nello “sfondo”, anzi, quasi a fare da contrappunto, l’amica di Delia, Marisa, ha un rapporto con il marito totalmente diverso, opposto, che potremmo definire, volendo usare ancora una certa terminologia, un matriarcato.
Ma non solo, pur di evitare la drammatizzazione della violenza coniugale, la Coltellesi la trasforma in una danza macabra, per contrasto accompagnata dalle canzoni di quell’epoca che raccontavano dell’amore come fiabe, e che entravano in tutte le case dagli altoparlanti delle radio. Ma evita di insistere su questo aspetto tenendolo sempre sottotono rispetto all’oggettiva gravità dell’atto violento.
Sin qui la linea narrativa di Delia sembra anch’essa svilupparsi su una superficie senza increspature, senza picchi eccessivi, dove si muovono in modo contenuto diversi personaggi disegnati lungo un piano orizzontale, bidimensionale, dove Delia vive ma senza esercitare nessuna azione che possa modificarne la struttura (a parte quando interviene in un modo “fuori dalle righe” per evitare il matrimonio combinato della figlia che assomiglia troppo al suo).
Vi è poi un ultimo personaggio, la figlia, Marcella, irrequieta, che non accetta ciò che accade, che rimprovera la madre per non essere capace di ribellarsi alla violenza del padre. Marcella è come un vento che tenta di agitare e scuotere la tela.
Non è chiaro fin qui se la regista non sappia in che direzione andare e dove vuole condurci con questa storia, della quale non riesce neanche a caratterizzare in modo forte i personaggi come i maestri del Neorealismo ci avevano insegnato, ma rimanendo ingabbiata in un genere del quale usa solo degli stereotipi consumati e logori, e riuscendo solo a creare un microcosmo (la società di quel tempo) come sfondo piatto a un altro microcosmo che è la famiglia di Delia, anche questo rappresentato su un piano in bianco e nero senza alcun chiaro scuro e contrasto significativo.
Oppure la Cortellesi ci vuole portare altrove usando proprio dei luoghi comuni, per ridiscuterli proponendoci un diverso punto di vista?
Proviamo a capire.
Ad un certo punto la regista inserisce nella vicenda un oggetto che modifica la dinamica della storia, una busta che contiene una lettera, che d’un tratto e inaspettatamente Delia riceve e della quale noi spettatori non conosceremo il contenuto sino alla fine del film.
La lettera interviene nel racconto producendo un invisibile, che increspa la tessitura della storia, così come già la figlia prova a fare ma in modo impulsivo, “adolescenziale”.
La busta genera un fuori campo sia narrativo (la lettera è forse di Nino che aveva precedentemente informato Delia che, per motivi economici, sarebbe andato via lontano, e che la aveva invitata ad andare con lui?) che tematico (è forse racchiuso dentro quella busta l’elemento che ci permetterà di “significare” e rileggere l’intera storia?).
Se la busta e la lettera non fossero state altro che l’invito di Nino a Delia di fuggire via con lui, e che Delia sembra poi accettare, il film sarebbe stato solo una mediocre commedia; una storia carina, leggera.
Ma basta poco perché la leggerezza si trasformi in banalità. E questo film ne sarebbe stato un esempio.
Non mancano nel Cinema Italiano Neorealista esempi di film che si muovono su questo filo tenue.
Nel film di Fellini La Strada i protagonisti, Gelsomina e Zampanò. si muovono in uno spazio e in un tempo ricco di personaggi secondari appena accennati. Eppure lo spazio non è un semplice contenitore o sfondo alla storia, ma riesce a diventare lo spazio dell’anima; i personaggi secondari che abitano questo spazio, pur essendo solo maschere che rimandano a una tipologia di umanità facilmente riconoscibile, si inseriscono attivamente nella linea narrativa della relazione tra Gelsomina e Zampanò in vari modi: drammatizzandola a volte (la donna che si muove dietro delle lenzuola stese che canticchia il tema di Gelsomina), o catalizzando narrativamente la storia verso nuove direzioni non solo narrative ma anche tematiche (Il Matto), o ancora chiarendo, per contrasto, i caratteri psicologici di Gelsomina e Zampanò (la prostituta al Bar; la vedova nel casale dove si tiene un banchetto matrimoniale; la suora).
Altro esempio è il leggero film di Ermanno Olmi Il Posto, dove i personaggi sono scritti visivamente con una delicatezza e una cura minuziosa; dove ogni gesto diventa poesia (i due protagonisti che prendono un caffè al bar, ad esempio); una poesia indimenticabile.
Ma andiamo avanti.
Ci si avvicina al finale. E questo arriva con un montaggio incrociato sempre più serrato che tende verso un punto.
E questo centro verso dove vengono fatte convergere tutte le azioni e i personaggi è un momento preciso di quella giornata, un’ora precisa nella quale sappiamo che Nino partirà. Gli elementi del montaggio incrociato sono:
- Delia, che sembra voler arrivare in tempo all’appuntamento con Nino per andare via con lui;
- la morte del suocero che rischia di non far arrivare in tempo Delia all’appuntamento con Nino;
- la busta e la lettera che cadono dalla tasca di Delia proprio quando finalmente riesce a trovare un modo per svincolarsi dalla situazione venutasi a creare con la morte del suocero, e poter così andare all’appuntamento;
- la figlia che ha ritrovato la lettera persa dalla Madre e leggendola ne comprende l’importanza; ora deve fare di tutto per farla riavere alla Madre;
- il marito che trova la busta dalla quale capisce dove sta andando la moglie; ora deve fare di tutto per raggiungerla e fermarla.
Ma dove convergono tutti?
In una piccola strada e in una piccola piazza, davanti a un seggio elettorale.
Ed è in questa strada e in questa piazza che la superficie s’increspa e non è più bidimensionale ma diventa profondità, un alternarsi di pieni e vuoti, una dinamica di volti e di emozioni.
Il piano lineare diventa una architettura barocca, che genera movimento.
Le figure si staccano dal fondo e invadono lo spazio, lo conquistano e lo significano. Ciò che era una rappresentazione chiusa su una superficie diventa profondità e molteplicità.
E quella strada e quella piazza sono ora tutte le strade e le piazze d’Italia dove si celebra un cambiamento epocale: le donne hanno conquistato il diritto al voto.
Non è dentro le case, non è vivendo dentro dei microcosmi, che avviene il cambiamento, ma nelle strade e nelle piazze.
E avviene assieme agli altri.
Con gli Altri si fa la storia, e la si fa ascoltando l’irrequietezza, a volte forse scomposta, ma viva, dei figli che come un vento ci spingono verso il cambiamento.
Un’opera prima che si muove su un filo sottile, dove basta un movimento sbagliato per farla cadere nella banalità, ma non cade, ma neanche spicca il volo. Proprio non ce la fa.
Sicuramente però ci piace pensare che sia il preludio di belle cose future.

Antonio Pluchino

Antonio Pluchino è nato a Modica nel 1959. Ha insegnato “Linguaggio dell’immagine” presso l’Università della Tuscia di Viterbo e “Comunicazione visiva” presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha realizzato diversi documentari ed è autore di alcuni saggi sul cinema. Dal 2017 coordina il progetto “Immagina” che ha sede presso la chiesa sconsacrata di san Nicolò ed Erasmo a Modica Alta.

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