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Kesho (Domani)

Giuseppe Cusumano 14 gennaio 2024


Seduto davanti al minuscolo locale di Jasmine, a Idodi, ogni giorno è una vita, ogni figura un’esistenza. Passa tutto da qui mentre io ho fermato per qualche istante il mio inesausto rincorrere.
Eppure, non dovrei chiedere tanto, mentre quest’anno volge al suo epilogo e il nuovo ci illude col suo indistinto miraggio. Me ne sto qui, su una panca di legno col mio fastidio lombare, Jasmine mi ha servito uno zuccheratissimo tè allo zenzero, condividendo con me il suo chapati avvolto in un foglio di giornale, quello che per me era lo scorso anno – sempre qui, su questa panca, con la solita tazza sbeccata – per lei è stato sicuramente il giorno prima: come il passaggio della corriera verso Tungamalenga, il bimbo in stivali di gomma col suo copertone da far rotolare, il passaggio di una gallina nella polvere, e l’istituzionale crocchio di giocatori di biliardo sotto la tettoia di fronte – da un altoparlante cinese detona un brano moderno, un ‘bongo flava’ (così si chiamano, questi ritmetti techno-pop tanzani), in fondo io me ne sto qui canticchiando John Lennon.

Era da tanto che non respiravo questa polvere equatoriale tracciando linee conclusive d’un anno o d’un giorno o d’una vita, ogni tanto abbiamo scadenze occidentali che ci conducono a somme algebriche o a bilanci provvisori di una parte del nostro percorso, e così facendo penso che la strada che ho fatto fin qui è molta di più rispetto al tratto che devo – presumo – ancora percorrere. Per questo mi prendo sempre più frequentemente pause africane.
Noi occidentali abbiamo la propensione irredimibile a stilare programmi, a preoccuparci per una inattesa curva, a calcolare la difficoltà della prossima salita, a prevedere con buona approssimazione le condizioni meteo da affrontare: il nostro stato d’animo risente dell’impazienza, dell’ansia da imprevedibilità, il nostro respiro corto rivela tutto l’affanno dell’incertezza di un continuo domani – e sempre più spesso, anche di un dopodomani. Non vedo altro, qui intorno a me, se non occhi curiosi, espressioni accoglienti, oppure gli sguardi straniti dei bambini che si ritrovano uno ‘mzungu’ (uomo bianco) sedato nel suo consueto vagare, come sospeso dentro alla polvere di una resa, col capo reclinato dentro a un momento di presa di coscienza: qui e ora. Hapa na sasa.
E mentre accanto a me finisce per sedersi un tizio ad alitarmi pombe (alcol) in afro-inglese, e la silente signora del pane mi offre i suoi mandazi (frittelle) da dentro un secchiello di ducotone, mi riaffiora il “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere” di Giacomo Leopardi, e il tentativo di persuasione di Bufalino con la sua “Lettera di Capodanno”. Qui il futuro non esiste, nemmeno i semi del granturco che con le prime piogge sbucheranno dai terreni grassi, nemmeno la casa messa in piedi con canne e argilla lungo la pista che porta a Mlowa, se è per questo. E allora il tizio continua a ripetermi ‘peace & love’ e se ne sta a braccia conserte con me, spalla a spalla, nessuna illusione di una vita che possa essere migliore, o peggiore, da queste parti dove tutto ha un andamento bradicarchico, “Pole pole ndyio mwendo” (Il vero ritmo è la lentezza), le mie gambe hanno smesso di battere un ritmo che non so, i miei piedi si sono piantati su questa polvere che sa di eterno, in fondo ogni istante è eterno, e in questo momento non mi va di illudermi perdendo un tempo che ancora non mi appartiene.

Eppure, non chiederei tanto. Una penna e un foglio per dire basta alle guerre, alla famelicità dei potenti, all’assurdo d’ogni schiavitù e costrizione, per abbattere tutti i confini, anche quelli della nostra mente, e per ricordare che nulla ci apparterrà per sempre: tranne ciò che di noi, disinteressatamente, doniamo agli altri, all’uomo della strada, alla nipotina, all’amico di una volta, all’anziana che ha pudore a chiedere, a chi non se lo aspetta. Aspetterò che sempre più persone tornino a meravigliarsi d’un nuovo mattino, aprendo gli occhi dal sonno. E che questo sia un continuo capodanno.
Intanto ho salutato Jasmine, “Tutaonana kesho” (Ci vediamo domani), non ci crede granché neanche lei, e forse il domani sarà il 2024.

Giuseppe Cusumano

Giuseppe Cusumano è nato nel 1968 in un paesino del Polesine che oggi non esiste più, da genitori etnei di Militello in Val di Catania. Vive a Ragusa da oltre 40 anni e scrive quasi da sempre, da mancino corretto: ama la musica, nuota e si diletta di fotografia, ha praticato calcio e arti marziali, si nutre di libri, di natura e di umanità.
Risulta curioso, poco ortodosso, distrattamente attento, dotato di ottima memoria - e anche per questo dicono soffra di ‘retrotopia’.
Di professione Malaùssene, da nove anni coordina un Progetto di volontariato (nato in Ambasciata e radicato presso la missione di Kitanewa) per la costruzione di scuole di ogni ordine e grado nella regione di Iringa, in Tanzania, e continua a farsi correggere i compiti dalla sua prof di lettere.
Ha pubblicato diversi racconti e articoli, un diario di viaggio africano (Quaderni tanzani, OperaIncerta Editore), un romanzo (La terza banca, La Zisa Ed., recensito su Repubblica), e incredibilmente una raccolta di poesie (Minimalia, Libro Italiano World Ed.).
Saltuariamente ha scritto su un blog, ma non è cosa sua.
In compenso, a breve pubblicherà il suo nuovo romanzo, ambientato in Africa, dal titolo Agli elefanti invece sì, editore cercasi.

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