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Mi ritorna in mente...

Gianni Failla 14 novembre 2023


Nonostante le bizzarrie del cambiamento climatico, dalle mie parti, nel nord dell’Europa, i mesi autunnali restano quelli più tristi. Pioggia, cielo grigio, tappeti di foglie morte, refoli d’aria fredda, tutto contribuisce alla nostalgia del letto caldo lasciato di malavoglia la mattina presto. Perdipiù bloccato nel traffico a passare il tempo indovinando le forme mutevoli dei nuvoloni neri. Così la mia mente corre altrove per sfuggire all’attacco di malinconia delle 7 e 49, e si rifugia in un posto ben più caldo e felice: quello dei ricordi. Ad esempio, mi torna in mente…

… la pornoadolescenza negli anni ottanta, coi filmetti osé trasmessi a mezzanotte dalle televisioni locali; i discorsi e i sotterfugi inventati con gli amici per convincere il cassiere dell’ultimo cinema a luci rosse del paese che eravamo maggiorenni; i giornaletti porno comprati di nascosto presso edicolanti dall'occhio complice, a volte strafottente, in ogni caso assonnato.
Di educazione sessuale a casa o a scuola manco a parlarne, per cui ce la facevamo da autodidatti su riviste tipo Le ore liete, che poi erano fotoromanzi per soli adulti. Una ‘cattiva’ educazione sessuale che ci saremmo ritrovati nel bagaglio culturale assieme a Giovannona Coscialunga e Lino Banfi, e che molto avrebbe giovato in seguito alla carriera politica di Berlusconi;

… il concertone del Primo maggio, di cui - non potendoci andare fisicamente - ero un appassionato spettatore vhs. Cioè, non riuscendo mai a seguirlo in diretta TV per via delle scampagnate e per non restare incollato allo schermo un giorno intero, registravo tutto su cassetta. L’indomani, mi sarei divertito con l’avanti veloce per scegliere i pezzi che m’interessavano.
Da qualche parte, a casa dei miei, dovrebbe esserci ancora una pila di quelle cassette vhs che alla fine, per pigrizia o perché comunque le cose registrate sapevano subito di vecchio, non ho mai avuto voglia di guardare;

 

… il paesino arroccato sulla montagna che per arrivarci in macchina c’era voluta una mezz'ora buona di curve strette e salite vertiginose. Per le vie del centro i grovigli di stradine quasi sempre in salita, formavano labirinti naturali e piazzette inattese. Vi si affacciavano porte aperte e vite private, di tanto in tanto bottegucce in cui coesistevano, accatastati senza un criterio apparente, oggetti d’ogni tipo, dal campanaccio per le vacche al bagno schiuma alle felci.
Passeggiando fra le viuzze, gli abitanti del posto mi salutavano d’istinto come si fa tra compaesani, poi, non riconoscendomi, tiravano dritto per gli affari loro. I vecchi invece restavano a fissarmi. Mi indagavano con gli occhi della memoria e alla fine mi chiedevano: Ma tu… di cu’ sì figghiu?

… l’alba fredda sull'autobus che mi portava via da casa, e il sole luminoso che mi sorgeva davanti, in fondo alla strada;

… quando, dopo un po’ che mi ero trasferito in Francia, cominciò a farsi sentire il bisogno di tornare in Italia, fosse stato solo per accertarmi che quel posto esistesse veramente. Addirittura mi capitava di stupirmi quando in televisione qualcuno parlava italiano; ero meravigliato dal fatto di non avere inventato io quella strana lingua e a volte pure indispettito dai turisti italiani incrociati per strada che padroneggiavano l’italiano quanto e meglio di me.
L’Italia, inconsciamente, era diventata per me una sorta di universo immaginario, come quello di Star Trek: certo plausibile ma senza dubbio inventato;

… quando realizzai che al lavoro è come nei giochi da bambini: ci sono quelli che vogliono fare per forza lo sceriffo, e c’è chi fa l’indiano;

… quella volta che, alla mensa aziendale, la prossimità fra i tavoli dei commensali mi costrinse a subire i discorsi di una coppia di donne sedute vicino al mio. Parlavano fitto fitto di giardinaggio e nutrizionismo. Io passivamente origliavo distratto dai fatti miei, quando a un certo punto una delle due affermò seria e orgogliosa che, grazie al suo orticello, aveva raggiunto la totale autonomia in fatto di cetrioli;

 

… la testa di mio figlio nato da pochi giorni, perfettamente rotonda, piccola, calda e appena coperta dai primi capelli, che stava con esattezza nel cavo della mia mano: ed era come tenerci dentro il mondo intero;

… il ciuccio che, quando cercavo di stendere sul letto il corpicino finalmente addormentato di mio figlio, sistematicamente scivolava sul materasso con un ‘plop’ assordante, e lo svegliava di colpo;

… il quattro dicembre quando, come ogni anno, una pioggerellina fredda ci cade di traverso su cappucci e ombrelli.
È sempre così: quel giorno piove. A volte tira pure un vento ghiacciato e fastidioso o fiocca un po’ di neve.
È un giorno speciale il quattro dicembre, quello in cui ci ritroviamo tutti nel piccolo cimitero del vecchio quartiere strasburghese di Enzo, sulla sua tomba. Fra un sorriso e un abbraccio, c’è chi tira su col naso, chi tossicchia, starnutisce o si scansa per non attaccare germi agli altri; e per un paio d’ore restiamo lì, intirizziti, raccolti più o meno compostamente intorno alla foto del nostro vecchio amico. Sulle facce dei presenti sono visibili i cambiamenti del tempo: qualche ruga in più, le barbe sempre più grigie, capelli bianchi; c’è pure chi adesso ha bambini e se li porta dietro. Si scherza in italiano o in dialetto, ognuno nel suo, ci si scambiano notizie sulla famiglia, sul lavoro, impressioni sulle ultime assurdità della politica italiana. È il nostro modo di ricordarci di lui. Lasciati alle spalle gli impegni, il lavoro e i guai di tutti i giorni, l’amicizia torna a scaldarci come un tempo, col ricordo delle serate a ripensare il mondo, dei bei progetti e dei giorni insieme a realizzarli. E ci scordiamo il freddo e la pioggia di dicembre;

… quando il mondo intero fu colto di sorpresa dal Covid, come davanti a un passaggio a livello inaspettatamente chiuso. Ci siamo ritrovati in fila, ognuno nella propria macchina, a guardarci intorno, sorpresi, obbligati ad aspettare il treno.  All’inizio guardavamo l’orologio impazienti, contavamo i minuti con in testa gli impegni mancati. Mano a mano ci si siamo adattati: la musica alla radio, la primavera dietro ai finestrini, le chiacchierate e i litigi al telefono, e i giochi coi bambini perché in macchina bisognerà pure occuparli, e pazienza se a scuola arrivano in ritardo;

… una domenica mattina, in cui i bambini tardavano a svegliarsi e avevo tempo per poltrire a letto; ero sveglio ma non avevo voglia di lasciare le coperte; stavo, piacevolmente intorpidito, fra i miei pensieri che fluivano liberamente. Uno però mi si fermò in mente. Era il ricordo di un vecchio film a episodi di Verdone: la scena del risveglio di Pasquale, un tizio sgraziato dall’espressione ottusa che si esprimeva a grugniti. Una biondona in vestaglia gli preparava grossi salsicciotti fritti per colazione che lui ingurgitava di malavoglia. Si sarebbe visto poi che Pasquale era un italiano emigrato in Germania. L’episodio raccontava il suo viaggio per tornare al paese a votare alle elezioni, ed era una tragicomica rappresentazione dell’emigrante di quegli anni: cafone italiano per i tedeschi, e fessacchiotto straniero per gli italiani. Persi il buon umore quando realizzai che, per misteriose ragioni, la mia mente aveva collegato il risveglio di Pasquale a quello mio, suggerendo una spiacevole similitudine non solo fra me e l’emigrato in Germania ma anche fra mia moglie e la biondona tedesca, benché la mia non avesse mai avuto neanche l’intenzione di prepararmi la colazione.

Foto di Karolina Grabowska, Pixabay
Gianni Failla

Gianni Failla nasce a Vittoria nel 1970. Dopo il Diploma di Ragioniere, esercita la professione contabile per una decina d’anni, prima di ammettere che per quel mestiere non è proprio portato. Si riconverte quindi nel sociale e per qualche anno lavora per l’inserimento socio-professionale degli immigrati extracomunitari. Per una serie di circostanze, nel 2002 si ritrova a seguire in Francia la Rossa che diventerà poi sua moglie. Lì, a Strasburgo, riprende gli studi universitari mai completati in Sicilia e si specializza in Lingua e Letteratura Italiana. Per campare, nel frattempo, insegna la lingua italiana ai francesi o si dedica alle decine di lavoretti malpagati e ingrati che la Francia, bontà sua, riserva agli studenti e agli immigrati. Per un certo periodo collabora con il mensile online “Operaincerta.it”. Si occupa anche di alcune associazioni culturali italo-francesi per le quali, fra le altre cose, traduce, scrive e cura i siti e le pubblicazioni associative. Il giorno in cui la Rossa gli annuncia l’arrivo del quarto figlio, si decide a mettere la testa a posto. Abbandona il Dottorato e i sogni universitari, e accetta un lavoro nel settore logistico dove, tragicamente, è ancora impiegato.

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