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Veramente contano

Ettore Botti 14 ottobre 2023


“Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano.” – Il ponte, Franz Kafka (Traduzione di Anita Rho)

Lei guarda gli orologi messi in fila, perfettamente appesi al muro. La ragazzina legge: New York, Roma, Abu Dhabi e Nuova Delhi. Adesso si trovavano a Newark, lei aveva imparato dal padre che l’accompagnava quel giorno lì che da Newark potevi vedere l’isola illuminata di Manhattan, e che lì a Newark c’erano altre persone come lei e come suo padre, gente che viene dal paese dove stava suo nonno, l’Italia. I soldi dovrebbero arrivare fra pochi minuti, massimo entro le diciotto, aveva detto il consulente della filiale. La ragazza facendo i conti non lo poteva capire, non era giusto e il consulente si era sbagliato, come mai fra pochi minuti se in quell’attimo preciso erano le nove del mattino? Lei n’era sicura di questo errore perché si era svegliata presto per accompagnare il padre in banca.
«È brava tua figlia», disse il consulente. «Come parla bene l’inglese», continuava a dire il consulente, «però non ha ancora imparato che in Italia sono avanti nel tempo, ora stanno per finire di lavorare e tornare a casa. Quelli che lavorano, certo». Rise il consulente.
Cosa vuol dire essere avanti nel tempo?, pensò la ragazza. Avrebbero già vissuto le nove del mattino come lei, oppure il tempo scorreva più velocemente e i compiti di casa venivano fatti non in due ore, come per lei, ma invece in una decina di minuti?
«Tesoro guarda il globo nel computer», disse il consulente mostrandole lo schermo. «Man mano che la terra gira senza che noi ce ne accorgiamo, il sole sorge e splende solo su una parte di questa pallina verde e piena di mare, capito?»
La ragazzina gli chiese se anche suo nonno conoscesse questa storia, lei pensava alla paura del nonno nel sapere che lì in America era ancora buio quando c’era solo del sole lì a Napoli. Forse è per questo che il nonno era rimasto in Italia, per il futuro e per il sole? Il consulente si scusa ma non poteva finire di spiegarle le traslazioni, c’era una fila interminabile di clienti dietro di loro: Spagna, Portogallo, Messico, Brasile e Israele. Anche lì notte e giorno, luce e buio. Un giorno lo imparerai meglio di me, le promise il consulente salutando padre e figlia. Il consulente glielo disse al futuro, imparerai.

Erano le dieci e Manhattan non era più illuminata, era giorno e le luci non erano accese. Era grigia e sovrappopolata, se strizzasse gli occhi si vedrebbero, senza sosta, gli aerei diretti all’aeroporto John F. Kennedy. Come si viaggiava in aereo con questa differenza di orario, vivendo solo una parte del mattino e arrivando sei ore dopo in serata? E se le succedesse l’opposto ovvero prendere un aereo dal paese di suo nonno, messosi in avanti nel tempo, per tornare a Newark che viveva ancora nel passato? Perché in tanti hanno fatto questo viaggio? Giulia, Pippo, Francesco e suo padre. Perché suo nonno avrebbe bisogno dei soldi e quei soldi lì come sarebbero arrivati, fatturati nel passato e inviati al futuro? Tutto questo non ha senso, pensò. Lei era troppo piccola o forse immatura per poter capire questi viaggi nel tempo, questi viaggi che vanno oltre le sponde del Hudson e dell’oceano Atlantico. E se anche l’inglese, la sua lingua, fosse un idioma che si parlasse solo nel passato? Forse era per questo che suo padre, sforzandosi per non fare una brutta figura davanti agli altri, le parlava sempre in inglese e non italiano? Cosa vuol dire parlare la lingua del futuro? Che vuol dire avere non una sola lingua ma bensì due? Passato e futuro.
«Non ti preoccupare, tesoro, che già alla tua età sei troppo brava e puoi già capire tante cose», le diceva il padre mentre tornavano a casa a piedi. «Io ti posso assicurare che anche se sono le dieci abbiamo già fatto di più di tuo nonno e per questo ogni tanto ha bisogno che qualcuno gli mandi soldi. E come mai, papà? Perché i soldi qui valgono di più e si lavora meglio. Come si lavora meglio se sono ancora le dieci del mattino, insisté la ragazza. No, sono le undici e fra poco ti lascio con zia Giulia e papà deve andare al lavoro, ok?»

Neanche zia Giulia era in grado di spiegarle questa differenza, le disse soltanto i dettagli tecnici: «Devi fare la somma, ci siamo? Se qui sono le dodici, tu devi fare dodici più sei, capito? Vuol dire che sono le diciotto, che sono le sei del pomeriggio». Lei lo sapeva del calcolo, ma era più preoccupata per l’aspetto fisico e non tecnico. Come viveva la gente in Italia, vivendo le ore di più e non di meno come loro a Newark? Invecchiano prima di noi e sono più giovani? Loro sanno le notizie prima di noi e non ce lo dicono per fare sorpresa? Zia Giulia inizia ad arrabbiarsi con l’insistenza della piccola. «Figlia mia non importa, l’importante è non sbagliare l’orario che li chiami, altrimenti si spaventano perché pensano che sia venuto a mancare qualcuno dalle nostre parti, capito? Basta non sbagliare i calcoli e chiudiamo questo argomento, alright

La sua testa non smetteva di pensare all’antico continente, come lo chiamavano a scuola. Antico e passato, qualcosa non andava. Era questa, l’America, l’antico continente, la terra che stava nel passato. Se non fosse per il notiziario delle sedici, annunciando una tempesta di neve su tutta la regione di New York prolungatasi fino a domenica, lei non avrebbe smesso di pensare agli orologi appesi in banca. Cavolo, come farà suo padre per tornare a casa?
«È meglio che rimanga da Gino, lui non sa guidare bene con tutto questo ghiaccio!», gridò dalla cucina zia Giulia. La ragazza si mise subito a piangere. Come mai giusto nel giorno in cui suo padre inviava soldi al nonno in Italia, il paese nel futuro, e lui non ci comunicava della tempesta? Sicuramente avrebbe visto il notiziario delle sedici prima di loro a Newark. Era cattivo il futuro? Forse solo loro, suo padre, zia Giulia e lei, erano persone brave da raccontare tutto e non nascondere niente. Siccome vivevano nel passato, aggrappati alla speranza dei ricordi e non dell’avvenire, non avrebbero paura di dire tutto quello che c’era da dire.
Come il passato, anche il ghiaccio e la neve si sciolsero e il padre arrivò il giorno dopo a casa.

Circa quindici anni sono passati dalla forte tempesta di neve del 2008, lei era nel futuro, in Italia. È Zia Giulia seduta su una panchina a raccontare la storia buffa, della ragazza che non poteva capire il fuso orario. Tutti ci ridono su, era divertente vedere zia Giulia che ripete le stesse parole dette nel passato dalla ragazza. Erano i parenti italiani adesso in piazza che si trovavano nel futuro, e loro migrati a Newark nel passato, dice zia Giulia.
La ragazza non arrossisce, adesso fa la scrittrice e lo trova buffo, quasi una sciocchezza se non fosse per la grazia dello sconosciuto. Lei ha sicuramente imparato e capito cosa sono le traslazioni e come noi viviamo lo stesso attimo insieme, ma dislocati in differenti angoli del globo. Anche volendo, uno non potrà mai trovarsi nel futuro. E adesso che fa la scrittrice lei pensa che solo uno scrittore, volendo, può trovarsi nel passato. Però lasciamolo stare un attimo, pensò la ragazza. Zia Giulia conclude dicendo che se lei seguisse il modo di pensare di quella ragazza del 2008, durante la paura di pensare a suo padre bloccato nel traffico, avrebbe preferito trovarsi nel futuro, lì in provincia di Salerno. Non parlare così, dicono i suoi parenti. Nessuno può leggere il futuro, nemmeno noi.
E io sono in grado di scrivere il passato, pensò la ragazza facendo pace con se stessa, nel futuro però.

 

Ettore Botti

Ettore Botti (São Paulo, 2000), è uno scrittore italo-brasiliano multilingue. Attualmente vive a Ragusa.

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