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L'illusione di tornare

Fabio Wasserman 14 settembre 2023


Ho sempre pensato che fosse impossibile lasciare Buenos Aires. Ho sulla pelle, come un tatuaggio, i vecchi edifici, i binari del tram sepolti nell'asfalto. È una città che si dispiega inevitabilmente tra le sue strade strette, alte vetrate e pareti colorate che finiscono nel quartiere della Boca. Buenos Aires, penso, ha più ricordi che antichità. Non è una città vecchia, ha l'impronta della prima giovinezza, l'aria poco inquinata e i vecchi camini a carbone spenti che lasciano vedere il cielo celeste.
All'inizio del secolo scorso i miei nonni arrivarono a Buenos Aires da Varsavia, altri parenti vennero dalla Spagna e molti altri da tutta Italia. Ho sempre pensato che lasciare la famiglia, il quartiere, gli amici fosse una disgrazia. Non potevo immaginare il dolore e lo sradicamento che avranno provato coloro che sono venuti da così lontano e hanno popolato la mia patria.
Forse è per questo che Buenos Aires ha un porto che non si vede dalla città. Gli edifici costruiti vicino alla riva non guardano al fiume che porta all'oceano, gli voltano le spalle.  Come se quelli che sono scesi dalle navi non volessero saperne di ripartire.
All'inizio di questo nuovo secolo un'organizzazione culturale mi ha chiamato per fare un lavoro di ricerca in Brasile sulle corrispondenze e le differenze nella colonizzazione spagnola e portoghese nella regione. Ero in crisi con il mio matrimonio e sarebbe stata l'occasione per prendere le distanze. Tuttavia, ho avuto dei dubbi riguardo ai miei figli, che erano ancora piccoli, e su un lavoro che dovevo portare a termine in Argentina. Erano scuse, perché pensavo che il giorno in cui avrei deciso di andarmene non sarei più tornato. Forse la coincidenza dell'inizio del secolo, quando arrivarono i miei nonni in Argentina, e quest’altro inizio di secolo che mi portò in un altro paese, lo sentii come un segno di ripetizione e dissi no.
Nel 2004 mi hanno richiamato. Questa volta il progetto durava quattro anni e dovevo rispondere subito, perché nei due mesi successivi dovevo stabilirmi in Brasile, in una città che ha il nome di un altro porto, Porto Alegre.
Ricordo che la sera in cui decisi di andare presi un autobus e passai per foce, scattai alcune foto con la mia macchina fotografica, passeggiai per il porto e vidi le navi che mi sembravano vecchi galeoni ancorati al ricordo. I miei nonni arrivarono senza conoscere la lingua, senza conoscere nessuno, indifesi come quando si nasce.
Ho solo preso alcuni libri e il mio bandoneon. Non importa quanto vada lontano, quando lascio Buenos Aires mi sento come se fossi fuori dal mondo.
Arrivai a Porto Alegre e la prima cosa che feci fu mettere una delle foto che avevo scattato dal porto sul comodino e il bandoneon poggiato ai piedi del mio letto. Conoscevo un po' il portoghese del Brasile ed ero entusiasta del lavoro. Avevo pensato, senza deciderlo, che era irrimediabile rimanere a vivere per sempre in un altro paese. Era un dato di fatto. Un esilio autoperpetrato.
Ho smesso di chiamare i miei amici argentini, ho preso una distanza artificiale dalla mia patria e questo mi ha fatto conoscere Porto Alegre e anche innamorarmi per non restare solo. Ma la mia più grande compagnia è stato il mio bandoneon. Ogni mattina, dopo il caffè, suonavo un tango. Era un rituale che mi ricordava il mio quartiere. Le note gravi del bandoneon risuonavano nell'appartamento che mi era stato dato per fare il lavoro.
Quando finii la mia ricerca non pensavo che a tornare a Buenos Aires, la mia città. Vedere le strade, il mio club, i miei amici, parlare la mia lingua. Desideravo solo tornare indietro, tornare in quel posto da cui non ero mai andato via perché ci tornavo sempre con i ricordi.
Forse i ricordi, quelle immagini che sembrano svanire nel tempo sono un altro porto dove si arriva. Se così fosse, sarà per questo che non si va mai via.
Come torna colui che non se n’è mai andato?
A volte mi viene da pensare che la storia non è avvenuta solo nel passato, ma che accade tutto il tempo, come una grande ripetizione, un punto cieco dal quale non possiamo né scappare né separarci. Un ricordo che è a portata di mano, ma che quando lo vogliamo afferrare ci sfugge. Penso alle tracce degli uccelli nell'aria.
Pochi giorni dopo essere tornato alla foce, ho camminato per le strade acciottolate e strette fino al porto. Ho visto alcune navi partire e altre arrivare da lontano. L'acqua del fiume agitato se ne andava con la corrente ma io stavo fermo, guardando tutto e allo stesso tempo essendo parte del paesaggio come se non me ne fossi mai andato, perché ci sono dei posti dove, anche se ci si oppone, non si può fare a meno di tornare.

(Traduzione dallo spagnolo di Antonella Occhipinti)

Fabio Wasserman

Fabio Wasserman si è laureato in Scienze Sociali presso l’Università di Buenos Aires (UBA), Argentina. Nel 2008 ha fondato e diretto la casa editrice “Del Subsuelo Editores”. Dal 2018 al 2022 ha presieduto la Società degli Scrittori di Buenos Aires. Diversi suoi racconti e poesie sono stati premiati e pubblicati su media nazionali e internazionali. È scrittore, musicista e bandoneonista.

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