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Ritorni e dintorni

Daniela Ferrera 14 settembre 2023


Un’estate come quella che ci stiamo apprestando a lasciare, ma del 1881. È sera e steso sulla riva di un lago di montagna c’è un uomo che, immerso nel più bello e rasserenante dei silenzi, contempla il creato.
La luna, le stelle, gli alberi, ogni cosa di quel suggestivo paesaggio, riflesso nell’acqua scura e profonda, gli appare ritratta come in un quadro. Immerso nella natura, si perde nelle sue meditazioni quando ha una folgorazione improvvisa, stupefacente. Quell’uomo è un filosofo, uno dei massimi esponenti del pensiero filosofico occidentale del XIX secolo e, ancora non lo sa, in quella precisa notte d’estate del 1881 formulerà una teoria tra le più importanti del suo Pensiero, così importante da costituire tema di studio e dibattito ancora oggi.
Per Friedrich Nietzsche (questo il nome dell’uomo) Dio non ha creato l’universo ma le leggi che lo regolano; esso è composto, perciò, da un numero infinito di elementi che non si creano né si distruggono ma sono destinati a nascere, vivere e perire in un ciclo eterno che non avrà mai fine.
È la teoria dell’“Eterno Ritorno” (considerata da molti studiosi più simile a una profezia che a una rigorosa esposizione filosofica) con cui Nietzsche rifiuta il concetto di esistenza lineare tipico del Cristianesimo (secondo cui la vita è composta da una linea retta che ha un inizio e una fine) per abbracciare, invece, l’idea filosofica greca della ciclicità della vita, in cui il tempo è circolare, in cui ogni attimo contiene in sé la totalità dell’esistenza ed è destinato a ripetersi in eterno. In cui il senso dell’essere è interno alla vita stesso e non al di fuori di essa, nel futuro o nella vita dopo la morte.
Nietzsche parla per la prima volta di questa teoria nel suo libro “La Gaia Scienza”, dove affida ad un demone la rivelazione del “più abissale dei suoi pensieri”, come lui stesso definisce la sua folgorante intuizione: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”
Un concetto che il filosofo tedesco esplicita anche in “Così Parlò Zarathustra”: “Ecco, tu (Zarathustra) sei il maestro dell’eterno ritorno. Vedi, noi sappiamo ciò che tu insegni: che tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e che noi siamo stati già, eterne volte, e tutte le cose con noi. Tu insegni che vi è un grande anno del divenire, un’immensità di anno grande: esso, come una clessidra, deve sempre di nuovo rovesciarsi, per potere sempre di nuovo scorrere, per potere sempre di nuovo scorrere e finire di scorrere.’’
Come a dire: saranno destinati a rivivere all’infinito gli stessi eventi, le stesse gioie e gli stessi dolori, qualsiasi avvenimento che è accaduto, accadrà nuovamente.
Una verità sconvolgente per quei tempi, perché con la sua teoria Nietzsche afferma che l’eternità è parte degli uomini in una ripetizione ciclica e circolare che non ha alcun senso e importanza.
Chi di noi non vorrebbe rivivere la propria vita, cambiandone dei passaggi, salvando alcuni momenti ma non altri e correggendo gli errori commessi?
Ecco, allora, che la teoria dell’eterno ritorno può spaventare, apparire come un peso, come una punizione eterna per l’essere umano che così è destinato a vivere sospeso, soggiogato a un disegno già scritto nel quale tutto, semplicemente, accade. Infinite volte.
Un essere umano che è inerme dinanzi al fato e diverso dall’essere umano artefice del suo destino (“Faber est suae quisque fortunae”), di derivazione latina. Che non può fare altro che accettare passivamente la sua flebile condizione di “granello di polvere”.
Questo essere umano, però, è un uomo mediocre, non è certo l’Uomo o, per meglio dire, il Superuomo Nietzschiano, un essere umano fisicamente e mentalmente forte, che accetta la vita con la casualità degli eventi, senza opporsi. Che prova gioia per ogni aspetto dell’esistenza così come essa si manifesta, che coglie anche nei momenti di caos la lucidità per agire e la forza di non arrendersi, plasmando la realtà secondo il suo volere e il suo piacere.
Il Superuomo (chiamato anche ‘Oltreuomo’) Nietzschiano è capace di elevarsi al di sopra della morale e della legge, liberandosi dalle catene e dai falsi valori etici. Come? Lo svela la metafora del serpente (simbolo usato per rappresentare la ciclicità) e del pastore (simbolo dell’uomo comune e razionale che cerca di proteggere le proprie pecore dai mali della vita), contenuta in Così Parlò Zarathustra:
Vidi un giovane pastore che si torceva, soffocava, si contraeva convulsamente, stravolto, ed una lunga serpe nera gli pendeva dalla bocca. Ho mai visto tanto ribrezzo e livido orrore su un volto? Forse dormiva? Poi il serpente gli si introdusse nelle fauci e vi si attaccò forte coi denti. Tirai forte allora il serpente con la mano: invano! essa non riuscì a strappare il serpente dalla gola’. Allora gridai: ‘Mordi! Mordi! Staccagli la testa! Mordi!’ Così gridava in me il mio orrore, il mio odio, il mio ribrezzo, la mia pietà, tutto il mio bene e tutto il mio male gridavano in un sol grido in me. Ma il pastore morse, come gli consigliò il mio grido; morse con saldo morso! Sputò lontano da sé la testa del serpente: e si alzò d’un balzo. Non più pastore, non più uomo: un trasfigurato, un illuminato, che rideva!
L’uomo, secondo Nietzsche può trasformarsi nel Superuomo solo vincendo l’angoscia soffocante del pensiero dell’eterno ritorno (cioè della circolarità del tempo, rappresentata dalla stretta del serpente) mediante una decisione coraggiosa (ovvero l’accettazione di tale prospettiva, rappresentata dal morso al serpente).
Egli non sarà, in questo modo, una vittima del caos e accettando questa condizione gli sarà più facile accettare gli eventi negativi e gioire di quelli positivi. Elevandosi alla condizione di Superuomo potrà conoscere la vera dimensione di a-temporalità e a-spazialità del nostro Universo e trovare il suo “amor fati”, ovvero l’amore per il proprio destino, compiendo scelte che assumeranno il carattere di eternità.
Come il pastore che dopo aver morso il serpente si trasfigura e ride (perché autenticamente libero), così anche l’uomo comune potrà riuscire ad essere un Uomo nuovo, un uomo che non ha più paura della vita e sceglie di viverla in tutta la sua gioia e tragicità (cosiddetta vita dionisiaca).

L’intuizione di una sera d’estate di Nietzche appare dunque rivoluzionaria per la sua natura di insegnamento etico, di monito a ricordare che dobbiamo avere la capacità di fare i conti ogni giorno con le nostre “cicatrici”, perché siamo un accumulo di esperienze che non dobbiamo rinnegare e soltanto colui che si immerge con gioia e serenità nel flusso della vita e ne gode ogni istante, può desiderare l’infinito suo ripresentarsi.
Viene allora da chiedersi se la teoria dell’“Eterno ritorno” sia ancora attuale, se nei “dintorni” delle nostre vite, all’interno della nostra Società, si viva un tempo da “Superuomini” alla Nietzche o, piuttosto, un tempo antinietzscheano.
È indubbio che è in atto una rivoluzione tecno-digitale che sta portando a una mutazione antropologica: come essere umano, o sei visibile o non esisti. Le persone pensano di valere esclusivamente per quanto sono viste, per i “like” che ricevono sui social, e non per quanto sono realmente.
La Rete, l’iper-connessione visiva continua, 24 ore su 24, rende l’essere umano ancora più vulnerabile di quanto già non sia per condizione originaria. Una vulnerabilità che però viene inferta da noi stessi, perché siamo noi, oggi, le vittime e i carnefici di noi stessi.  Sembriamo tutti Superuomini, ‘masse urlanti nelle nostre comunicazioni imperanti, incessanti, ossessive e compulsive, le une contro le altre armate’. Ma il nostro grido non è il grido glorioso teorizzato dal Profeta Zarathustra e noi non siamo Oltreuomini, siamo solo Uomini comuni, con un amor fati che ci inchioda (piuttosto che liberarci) definitivamente alla nostra miserrima condizione.
Osservando gli eventi infausti che stiamo vivendo, questa nostra assurda contemporaneità, si ha come la sensazione che l’eterno ritorno di Nietzche sia oggi, piuttosto, un tempo a senso unico, con il male destinato a ripetersi molto più del bene e un fantomatico Oltreuomo schiavo della potenza altrui, non più creatore di nuove possibilità esistenziali. Un uomo capace di viaggiare alla velocità della luce, chattare con milioni di persone ma senza più un vero spirito critico sulle cose del mondo, sempre meno appassionato e rivoluzionario. Spesso solo, perso nel vuoto del nulla.
E - peggio ancora – soprattutto pronto a cedere il passo alla “sovrumana”, futura, Intelligenza Artificiale.

Daniela Ferrera

Daniela Ferrara nasce nel 1968 a Ragusa dove attualmente vive e lavora.
Sue grandi passioni, il giornalismo e la traduzione. Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne, annovera tra le sue esperienze formative nel campo linguistico il lavoro di traduzione di importanti documenti del patrimonio storico della Regione Siciliana, disponibile presso il Ministero dei Beni Culturali, la traduzione di un saggio italo-americano e di articoli per alcuni portali, tra cui East Journal, quotidiano on- line di attualità politica europea. Ex Giornalista pubblicista, ha collaborato per anni come componente di redazione con varie testate locali e alcune riviste on line, come “Le Fate”, periodico di Arte, Cultura e Identità siciliana. Abilitata nel 2005 alla professione di guida turistica, esercita negli anni, in questo ambito, attività di assistenza a giornalisti, registi e scrittori, per studio, ricerche o individuazione di locations cinematografiche nella Provincia di Ragusa. Collabora, nel 2010, con il giornalista Rai e scrittore Roberto Alajmo per la stesura del libro: L’Arte di Annacarsi.

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