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Mareggiata

Gianni Failla 14 settembre 2023


E finalmente venne il tempo delle vacanze. Un tempo fuori dal tempo, che quanto dura dipende da che punto lo guardi: dall'interno, dal 'durante le vacanze’, appare come dilatato, è quello dell'afa postprandiale che sembra non finire mai, per intenderci; visto dall'esterno invece, dal ricordo del dopo ferie, come adesso, quello stesso tempo è come se non fosse mai esistito. Un sogno bello e fugace durato un niente.
Comunque quel tempo venne e fu il tempo del ritorno. Come ogni anno: armi, bagagli e famiglia per tornare al Sud.

La strada verso Sud è sempre in discesa. Ci si viaggia veloci, sulle ali dell'entusiasmo per i giorni a venire. Sono duemila e passa chilometri di autostrada bollente interrotta ogni tanto dal miraggio di un autogrill; ma è tutto bello, perfino i cessi della stazione di servizio, è tutto facile, pure fare la coda al bar, è tutto buono, senza eccezioni.
I nomi delle città sui cartelli stradali si alternano uno dopo l'altro. Ce li lasciamo dietro senza rimpianti: Basilea, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, e finalmente lasalernoreggiocalabria.
In Calabria spunta sempre il mare, è una promessa mantenuta, e il primo che lo vede grida con l'entusiasmo del naufrago che avvista terra. Qualche ora più tardi, un traghetto rumoroso e veloce ci porta nell'Isola. È ancora tutto bello: il luccichio delle onde, le facce sorridenti dei troppi turisti, la sagoma della Sicilia che si avvicina. Poi lo sbarco lento sotto il solleone, presagio dei giorni afosi e pigri che ci aspettano. Infine le strade di Sicilia, aggrovigliate, barocche, tortuose anche quelle dritte.
I primi giorni ‘a casa' sono sempre particolari. Storditi dal viaggio, si galleggia straniati fra facce familiari, oggetti e luoghi un tempo nostri e ormai archiviati fra i ricordi. È come vivere un sogno che lentamente prende corpo e, a mano a mano che lo straniamento evapora, si popola di bagni al mare, pranzi di famiglia interminabili e cannoli alla ricotta; il lavoro invece, assieme alle preoccupazioni e agli affanni quotidiani, prende posto nel cassetto dei ricordi lontani.

La prima cosa che faccio ogni volta che torno, l'indomani mattina, è alzarmi presto per fare un giro. Mi godo il fresco e il silenzio delle prime ore, e vago senza meta fra il lungomare e le vecchie case dei pescatori rimesse a nuovo per i turisti di passaggio. Ne approfitto per fermarmi al bar, forzando lo stomaco a riadattarsi in fretta al caffè siciliano e ai cornetti alla ricotta. Ma prima di tutto passo in edicola - in paese ce n’è solo una, che fa pure da tabaccaio - a prendere il giornale, dare un'occhiata alle riviste che leggevo un tempo e comprare qualche fumetto da dividere coi miei figli. Una spremuta di nostalgia insomma, in cui spero di ritrovare intatti i paesaggi, gli odori e i sapori di tanti anni fa, di quando ho lasciato l'isola. È un esercizio difficile perché, anche se sembra immobile, la Sicilia si trasforma di continuo. Certo, a volte ce ne mette di tempo, ma alla fine anche a casa mia le cose finiscono per cambiare.

- Scusi, ma i quotidiani non sono ancora arrivati? - Chiesi al ragazzo dietro al bancone dell'edicola.
- No, non ce n'è - Rispose quello.
Era un ragazzo sulla trentina, abbronzatissimo, mal rasato; un paio di occhiali da sole dalla montatura gialla gli cingevano la testa, quella, ben rasata. Sembrava appena tornato da una festa sulla spiaggia. Non era il gestore abituale. Quell'altro me lo ricordo pallido per le ore passate dentro il locale, precocemente invecchiato dietro al bancone, triste come un gratta e vinci usato.
- Verso che ora arrivano, che ripasso? - Chiesi.
- Non ce n'è più. Non arrivano.
- In che senso, non arrivano? - Faticavo a capire il senso delle sue parole.
- Non vendiamo più né giornali né riviste - Rispose lui come se fosse la cosa più naturale del mondo, sorridendo per giunta.
- Come? Ma... perché?
Il tono della mia voce doveva essere troppo alto, forse un tantino isterico, perché subito, da una tenda dietro il bancone, spuntò la testa di una ragazza biondissima che mi squadrò preoccupata. Il colore dei capelli era abbacinante, attenuato appena dal rosa degli occhiali da sole che li incoronavano. Lo stesso rosa shocking le disegnava le labbra e le unghie lunghe e affilate che lei cominciò ad agitare in aria mentre mi spiegava:
- Sa com'è... si guadagna poco coi giornali, non li compra più nessuno e i fornitori ci mettono in croce. Così abbiamo deciso di limitarci alla tabaccheria e chiudere con i quotidiani, con i settimanali, con i mensili, con i libri e con i fumetti.
Per visualizzare meglio il concetto, la ragazza sventolò in aria cinque dita, sguainandone uno per ogni reparto dell'edicola che aveva chiuso; così, in totale furono cinque le unghie affilatissime che mi si conficcarono nel cuore una dopo l'altra. Cercai di contenere la sofferenza strabuzzando gli occhi solo un po', e limitandomi ad emettere un flebile "umf!" per ogni stilettata.
- Si sente male? - Mi chiese il ragazzo.
"Certo che mi sento male", avrei voluto rispondere, "adesso dove lo compro il giornale, dove le sfoglio le riviste che non comprerò perché il tempo di leggere non ce l’ho più, dove li prendo i fumetti per insegnare l’italiano ai miei figli, dove le perdo le ore a scartabellare fra gli inserti domenicali invenduti e le pubblicazioni inutili di storia locale".
- No, tutto bene - risposi invece. Continuai cercando di spiegare loro l'importanza della stampa in un paese libero e democratico, delle edicole, ultimo baluardo a difesa della cultura e dell'informazione in una città in cui le librerie hanno chiuso da un pezzo; ma non ci fu niente da fare. Il sorriso condiscendente dei due ragazzi, quello riservato ai vecchi che si ostinano a raccontare dei loro 'bei tempi', mi disarmò del tutto. Quando mi proposero un gratta e vinci a mo’ di risarcimento, abbandonai la discussione e uscii salutando in malo modo.
Ripresi la macchina per fare un giro sul lungomare. La brezza marina di sicuro avrebbe spazzato via il malumore.
Il sole era ormai alto. Le spiagge erano piene di bagnanti e gli ombrelloni erano spuntati come funghi di tanti colori. Andai in cerca del posto in cui di solito piantiamo il nostro di ombrellone, sperando senza crederci troppo che almeno lì ci fosse ancora poca gente. Il nostro posto è un pezzo di spiaggia ancora libera fra due lidi-bar-chalet che già da qualche anno colonizzano la sabbia con schiere di ombrelloni e sdraio. Noi di solito ci sistemiamo vicino alla battigia per avere un po' di tranquillità e allontanarci quanto più possibile dai bombardamenti musicali dei bar. Dopotutto, una volta che sei di fronte al mare, ti dimentichi di ogni cosa.
Arrivato sul posto mi parve invece che ci fosse più confusione del solito. Scesi dalla macchina per capire meglio e mi resi conto che quel pezzo di spiaggia, fino all’anno scorso libero e disponibile per i bagnanti, era ormai delimitato da steccati e recinzioni rettangolari. Guardando meglio, inquadrai: un paio di campi di beach volley su cui già si affrontavano sudatissime squadre di ragazze e ragazzi, un campetto di calcio da spiaggia ancora deserto, e un’altra zona di cui non capii la funzione ma piena di gente. Neanche il tempo di riflettere su quell’ultima bizzarra configurazione, che la gente si dispose all’interno del campo. Silenziosi e seri, si allinearono in file parallele formando ranghi, perfettamente inquadrati ed equidistanti, di fronte a un tizio che doveva essere della stessa famiglia degli edicolanti: abbronzato, barba di tre giorni ma testa rasatissima e occhiali da sole arancio sgargiante. Era un piccolo esercito. Forse avevano creato l’esercito spiaggesco di liberazione dallo sport, l’armata per la difesa della tranquillità marittima. O magari si trattava di ecologisti che finalmente erano riusciti a organizzarsi e si preparavano a cacciare gli inquinatori balneari, a radere al suolo lidi, bar e chalet. Mi aspettavo che il capo-testa-rasata da un momento all’altro facesse il discorso motivazionale di rito per infiammare gli animi prima della battaglia. In effetti quello, dopo qualche indicazione per inquadrare meglio le posizioni di ognuno, fece un cenno al ragazzo che alla sua destra gestiva l'impianto di amplificazione, senza dubbio per lanciare il sottofondo musicale epico che avrebbe dato risalto alle sue parole. Subito partì una musica assordante che però di epico aveva ben poco. Un ‘tump-tump’ opprimente, intercalato da ‘unz-unz’ ossessivi. Non sarà un discorso epico alla Braveheart, mi dissi, forse sarà più alla Mad Max, ma ognuno si motiva come vuole. Per tutta risposta Capo-testa-rasata attaccò a parlare ma, invece del monologo di Mel Gibson, gli venne fuori una voce da DJ anni ottanta che dava il benvenuto ai “meravigliosi e numerosi amici di questa splendida estate!” Dopodiché prese a dimenarsi a ritmo di musica, invitando la truppa a fare lo stesso. Non smise un secondo di spiegare esercizi e movimenti; ogni tanto qualche incitazione a “dare di più”, “più in alto le ginocchia”, “più su quelle braccia”, “chi suda da sé, suda per tre”, eccetera.
Mi allontanai portandomi appresso il cattivo umore che ormai era abbastanza grande e in macchina poteva sedersi davanti, di fianco a me. Mi ripromisi di cercare al più presto una spiaggia tranquilla, a costo di farmi cinquanta chilometri per un bagno a mare.
Non ce ne fu bisogno. Già nel pomeriggio, un vento fresco e potente cominciò a soffiare sulle spiagge della zona. Era la famigerata ‘pruvenza’, iattura per i bagnanti del posto. Loro, se l’acqua non era immobile, trasparente e caldissima, in spiaggia non ci andavano; se ne stavano a bighellonare in piazza lamentandosi del ‘mare tintu’ e della malasorte. A me invece, e per fortuna anche a mia moglie e ai bambini, il mare agitato è sempre piaciuto. Così, un paio di giorni dopo, non appena il vento si fu un poco affievolito, ci arrischiammo ad andare in spiaggia.
Arrivati nella zona che occupavamo di solito, scoprimmo un paesaggio spettacolare. La mareggiata si era abbattuta sugli impianti sportivi facendoli a pezzi. Recinzioni e barriere erano state divelte e sparpagliate lungo la spiaggia, reti da volley strappate penzolavano tristemente dai pali, il campo di calcio totalmente invaso dall’acqua, ormai era buono solo per la pallanuoto. Nella mia testa prese forma l’immagine di una mano gigantesca fatta d'acqua, che spazzava via le inopportune e invadenti strutture sportive. La giustizia divina su sfondo balneare. Mi pentii ‘quasi’ subito di quei pensieri vendicativi e convinsi la famiglia ad andare ad ‘appizzare’ l’ombrellone un po’ più lontano, fuori dalla zona del disastro.
In riva al mare c’era ancora un po’ di vento, anche se non aveva più la forza dei giorni precedenti. In compenso la spiaggia era deserta. Ogni tanto qualcuno che passeggiava sulla battigia, mezzo vestito, con lentezza. Per esperienza sapevo che non era gente del posto. Quando ero piccolo l’unica occasione di vedere il mare nei giorni di ‘pruvenza’, era quando ci andavo con gli zii paterni, che erano di Milano. I miei genitori mai si sarebbero sognati di scendere in spiaggia col ‘mare forte’. A me invece di quei giorni piaceva tutto: il fragore schiumoso delle onde, la brezza, l’aria frizzantina, lo spettacolo dei cavalloni. La spiaggia assumeva un aspetto diverso dal solito. Nei primi giorni della mareggiata infatti l’acqua invade una parte consistente della spiaggia che poi, quando si ritira, restituisce completamente levigata. Una distesa di sabbia uniforme, dura e compatta, interrotta da qualche canalone scavato dalla furia delle onde e punteggiata da piccole conche d’acqua salata. Da bambino, in più, quel paesaggio lunare per me era zeppo di tesori, gli oggetti portati dalle onde: conchiglie, rami, pezzi di battello, cavi e corde da ormeggio, bottiglie e oggetti di ogni tipo. Ai miei occhi si svelava così un universo fantastico che raccontava storie di pirati, isole misteriose, pesci giganteschi e sirenette.
Una volta fissato l’ombrellone, per un po’ seguii i miei figli nella scoperta di quei ‘tesori’, poi li lasciai ai loro giochi e, visto che mia moglie era immersa nella lettura, m’incamminai da solo lungo la battigia. Mi è sempre piaciuto passeggiare in riva al mare, coi piedi nell’acqua che si abituano velocemente alle temperature più fredde; mi sveglia e mi fa stare bene. Quel giorno per di più, camminando col mare in tempesta negli occhi e il fragore delle onde nelle orecchie, mi sembrò persino di essere parte di un paesaggio straordinario. Mi sentii rinvigorito e leggero, finalmente spensierato come da bambino, quando l’edicola era ancora una promessa di letture divertenti e colorate, e la spiaggia terra di avventure. Il vento, oltre agli impianti sportivi, aveva spazzato via i miei cattivi pensieri, il malumore dei giorni precedenti, la paura di essere fuori posto in un mondo che cambia troppo in fretta senza aspettarmi. La mareggiata aveva ripulito tutto.
Certo, durò poco. In capo a qualche giorno il mare tornò 'bello’ e pieno di bagnanti, le strutture vennero ricostruite e Capo-testa-rasata riprese a urlare ordini dal microfono a tempo di ‘unz-unz’.

Poi fu di nuovo il tempo del ritorno verso casa, stavolta verso Nord, verso la Francia, con la strada tutta in salita.

Gianni Failla

Gianni Failla nasce a Vittoria nel 1970. Dopo il Diploma di Ragioniere, esercita la professione contabile per una decina d’anni, prima di ammettere che per quel mestiere non è proprio portato. Si riconverte quindi nel sociale e per qualche anno lavora per l’inserimento socio-professionale degli immigrati extracomunitari. Per una serie di circostanze, nel 2002 si ritrova a seguire in Francia la Rossa che diventerà poi sua moglie. Lì, a Strasburgo, riprende gli studi universitari mai completati in Sicilia e si specializza in Lingua e Letteratura Italiana. Per campare, nel frattempo, insegna la lingua italiana ai francesi o si dedica alle decine di lavoretti malpagati e ingrati che la Francia, bontà sua, riserva agli studenti e agli immigrati. Per un certo periodo collabora con il mensile online “Operaincerta.it”. Si occupa anche di alcune associazioni culturali italo-francesi per le quali, fra le altre cose, traduce, scrive e cura i siti e le pubblicazioni associative. Il giorno in cui la Rossa gli annuncia l’arrivo del quarto figlio, si decide a mettere la testa a posto. Abbandona il Dottorato e i sogni universitari, e accetta un lavoro nel settore logistico dove, tragicamente, è ancora impiegato.

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