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Non sappiamo più pensare?

Domenico Dentici 14 novembre 2023


L’altra notte mi stavo cimentando in una di quelle ricerche su internet stupide, fatte perché non si ha nulla da fare e il cervello inizia a vagare nel nulla cosmico. Mi era venuto in mente un’idea per un articolo, quindi ho iniziato a cercare informazioni su uno degli anime che ha segnato di più la vita della mia generazione — Dragonball — e mi sono reso conto di come i social abbiano cambiato (per non dire distrutto) la nostra capacità di argomentazione e di pensiero.
Ciò che avevo cercato era qualcosa del tipo Dragon ball vero significato, perché negli ultimi tempi sto facendo un rewatch da quando Goku e Bulma partono alla ricerca delle sette sfere del drago e mi è parso molto più profondo di quanto ricordassi e, probabilmente, di quanto non lo sia. E mentre cercavo di capire se veramente ci fosse una critica al capitalismo nella 1x04 di Dragon ball, mi sono trovato davanti a risposte su Forum che adesso non riesco nemmeno a trovare — e spero di non essermi immaginato, visto che erano le 4 del mattino.
In principio erano 140 caratteri
Non sono un catastrofista e non credo che i social siano la radice di ogni male moderno, però è un dato di fatto che l’avvento di social network come Twitter, Facebook e TikTok in ultima battuta, abbia limitato di molto la capacità di argomentare. Su Twitter in principio si potevano scrivere 140 caratteri, poi portati a 280; Facebook è stato impiegato principalmente per commentare le foto di Zia Pina con gli sticker e le emoji; TikTok permette di commentare ma solo brevemente, con 140 caratteri, ed i video sono perlopiù molto brevi e non si prestano a discussioni interessanti.
Così, la nuova forma di fruizione dei contenuti tende a diventare sempre più breve. Da YouTube a TikTok abbiamo avuto un progressivo abbassamento della durata dei contenuti video, con la conseguenza quando mi trovo ad un video che dura più di 1 minuto, penso “che palle, andiamo avanti”. E questa, che poteva sembrare solo una mia percezione o pigrizia, è stata confermata da un team di ricercatori della Western Sydney University, della Harvard University, del Kings College, dell’Università di Oxford e dell’Università di Manchester che ha raccontato, sulle pagine di World Psychiatry, come la nostra soglia dell’attenzione sia diminuita terribilmente.
Oltre alla soglia dell’attenzione, è sotto gli occhi di tutti come si sia sempre meno propensi ad articolare discorsi con argomentazioni che non siano il semplice riportare dati trovati su Google, a volte anche errati. E il problema si estende anche a molti giornalisti, che scrivono articoli sempre più semplici e sensazionalistici perché il pubblico non ha il tempo e la voglia di approfondire certi temi.
Se guardo indietro a qualche anno fa, nei forum, non era così. Si andava certamente verso un impoverimento della capacità di argomentare, però si notano risposte complesse, articolate, pensate a lungo (spesso tra una risposta e l’altra passavano giorni) anche su temi molto più stupidi di quelli che ci troviamo ad affrontare oggi sui social. Se prima sui forum discutevamo su come i livelli di forza in Dragon ball GT fossero tutti sminch*ati, con risposte degne dei migliori saggi brevi scolastici, oggi parliamo di diritto all’aborto, femminismo, inclusività, salario minimo, solo attraverso gli slogan. Persino io, mentre sto scrivendo, mi chiedo se stia comunicando bene quello che voglio dire. Non siamo più abituati a dare risposte articolate perché negli ambienti virtuali in cui ci muoviamo, non c’è spazio per la complessità. Tutto deve essere leggero e nell’ottica di hic et nunc (ora e subito).
Questa riduzione della capacità di linguaggio, perché poco praticato sui social, si è tradotto in una riduzione della capacità di pensiero negli ultimi vent’anni. Ma se da un lato c’è chi attribuisce questa riduzione ai social in sé, io l’attribuisco all’uso che ci viene consentito di farne. Non è colpa dell’utente finale se negli ultimi vent’anni si è dovuto confrontare con la limitazione dei caratteri, con la necessità di un linguaggio immediato e semplice per raggiungere tutti in qualsiasi momento: non sai se chi ti legge sta alla scrivania, davanti al computer, concentrato su quello che ha davanti o se sta sul WC, intento ad ammazzare il tempo e utilizzando il cellulare anziché le etichette dei detergenti come si faceva in passato. Giornalisti, attivisti e semplici utenti hanno dovuto adattarsi di conseguenza, mutilando così il proprio vocabolario e i loro pensieri. Perché se scrivi tremila parole sulla gravità del cambiamento climatico e poi nessuno ti legge, che scrivi a fare? Tanto vale scrivere uno slogan e sperare che chi ti legge, una volta finito di espletare i propri bisogno fisiologici, vada ad informarsi su altri lidi (quali? visto che l’informazione ormai passa dai social ed è, in una qualche misura, sempre mutilata).
La mia generazione e quelle che verranno avranno una responsabilità importante (un’altra ancora oltre quelli che già hanno, esatto): quella di riappropriarsi degli spazi social, con la pretesa di ricevere attenzione non sono per gli slogan ma anche per i pomposi e inutili articoli lunghi più di 280 caratteri. Non possiamo più permettere che le grandi lotte che ci attendono vengano rilegate in poche battute e in pochi caratteri. Dobbiamo pretendere che venga ridato spazio all’argomentazione, ai fiumi di parole, ai dati spiegati in maniera meticolosa. Altrimenti c’è il rischio che si pensi di meno. O che non si pensi affatto.

Foto di Kira, Pixabay

Domenico Dentici

Domenico Dentici è nato a Rivoli nel 1998. Vive a Sciara da quando ha 4 anni ed ha pubblicato due libri e vari articoli. Si occupa di diritti e di politica, scrive una newsletter di attualità e sui suoi canali social fa media activism occupandosi di diritti umani sotto il nickname di Danpo. Studia Lettere moderne e Antropologia all’università degli studi di Palermo.

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